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Leader che non guardano lontano

di Salvatore Sfrecola

Scrive Paolo Mieli nel suo editoriale sul Corriere della Sera di ieri (Le insidie dell’anno che verrà) che Salvini, nella gestione del voto per il Quirinale, ha giocato “a palla con le teste di alcuni aspiranti al Quirinale, talvolta inconsapevoli. È un compito che si è improvvidamente autoassegnato senza essersi adeguatamente preparato nei mesi precedenti. È emerso che non ha né un’agendina né un numero adeguato di collaboratori fidati che conoscano e possano discretamente contattare persone fuori dallo strettissimo giro della Lega. Persone, intendiamo, candidabili a posti di responsabilità. Un problema del genere era già venuto alla luce quando nella primavera del 2018 si trattò di scovare un presidente del consiglio e qualche ministro “indipendente” da mandare al governo assieme ai seguaci di Beppe Grillo (i quali, per parte loro, potevano contare sui misteriosi serbatoi della Link University). Tale difficoltà si è riproposta recentemente allorché Salvini e Meloni sono stati costretti ad andare in cerca di candidati sindaci per le grandi città. Ed è venuta nuovamente alla luce negli ultimi giorni quando si trattava di rinvenire un inquilino per il Quirinale”.

I miei lettori, che mi scuseranno per l’ampia citazione, richiamata per l’autorevolezza dell’Autore, sanno che ho trattato altre volte l’argomento dei collaboratori delle personalità della politica, rilevando la loro scarsa capacità di aprirsi all’esterno, per attuare collegamenti con studiosi capaci di dare consigli e suggerimenti nella predisposizione di documenti, soprattutto di carattere normativo. È un antico difetto dei partiti italiani, i cui iscritti di antica origine, un tempo si diceva quelli che, da giovani, avevano attaccato manifesti, cosa che oggi non si fa più, arroccati nella cittadella dei partiti, mirano a posti di responsabilità politica nei consigli comunali, regionali e in Parlamento. È naturale che abbiano di simili ambizioni, ma sbagliano quando non danno spazio agli esterni che potrebbero contribuire a riflessioni importanti da versare delle sedi politiche, spesso senza alcuna ambizione personale che non sia far qualcosa per amore di un ideale.

La responsabilità di questo stato di cose ricade in primo luogo sui leader che amano circondarsi di yesmen, detto meglio in latino laudatores, i quali non solo tendono a tenere lontani gli estranei, ma non consigliano neppure i loro leader a contattare personalità o gruppi di studiosi che animano la vita culturale del Paese. Né mai, come dovrebbero in funzione del loro ruolo, tirano per la giacchetta segretari di partito ed esponenti dei gruppi parlamentari o ministri per sollecitarli a riflettere su quel che accade nel mondo.

Ne è un esempio la disattenzione che riguarda gruppi di studiosi che pure s’impegnano ad elaborare proposte. Come “Lettera 150” un think tank multidisciplinare in cui convergono personalità della cultura, guidato da un vivace professore universitario Giuseppe Valditara, ordinario di diritto romano a Torino, nel quale docenti di varie discipline, professionisti affermati, ex magistrati, vanno elaborando da tempo su posizioni di cultura liberale idee che dovrebbero essere apprezzate e in ogni caso messe a confronto con quelle che emergono all’interno dei partiti. Ne scrivono i giornali, se ne parla negli ambienti universitari (sintomatica la battaglia per i finanziamenti al Consiglio Nazionale delle Ricerche), si leggono sui social, whatsapp a instagram. Con inadeguata attenzione nel Centrodestra. Che, come denuncia Mieli, il Centrodestra non è stato in condizione di presentare al dibattito politico, in Parlamento ed al Governo, personalità “di area, per cui, al momento delle elezioni, deve rincorrere affannosamente personaggi che, anche quando meritevoli di qualche considerazione, non sono adatti al ruolo perché non sperimentati nel corso del tempo.

Mi spiego meglio, se ce ne fosse bisogno. La sinistra si è giovata nel corso degli anni di importanti punti di riferimento nelle università, nelle case editrici, nei giornali, per coltivare relazioni con personalità della cultura che per il loro prestigio sono stati polo di attrazione di altri soggetti ed hanno assicurato il presidio di posizioni culturalmente importanti. La stessa cosa che è accaduta nei ministeri dove un tempo dominavano i soggetti vicini alla Democrazia Cristiana, che mai aveva abbandonato il Ministero della funzione pubblica, e che oggi vedono in posizioni esponenziali soggetti che apertamente si riferiscono ai partiti di sinistra o sono simpatizzanti di questi partiti. È un grave deficit per chi vuole governare il Paese al centro, nelle regioni e negli enti locali, un errore da intestare in primo luogo ai leader i quali sono responsabili delle scelte organizzative ed operative e, ovviamente, dei soggetti dei quali si circondano.

Per cui quel che oggi lamenta il Centrodestra, il quale è andato in ordine sparso all’elezione presidenziale, è certamente conseguenza di molteplici ragioni. In primo luogo dell’antica difficoltà di “pescare” in aree culturali e professionali nelle quali, comunque, chi si espone non viene tutelato. Segue l’inveterata abitudine di Silvio Berlusconi di perseguire una sua politica, che esibisce il Centrodestra solo quando rafforza la sua leadership, e degli altri due partiti la Lega e Fratelli d’Italia che avrebbero bisogno di una radicale messa a punto. La Lega, perché appare sempre più un partito localistico, che non riesce a sfondare al centro e al sud in modo significativo, ancorato anche a una visione spesso molto commerciale del mondo della produzione, che indubbiamente rivela situazioni meritevoli di attenzione, ma che deve tener conto delle esigenze del Paese. E Fratelli d’Italia che avrebbe la possibilità di estendersi e di ampliare i suoi collegamenti sia sul piano ideologico, come avevano fatto Almirante e Fini, aprendo in modo significativo, non solo a parole, al mondo cattolico e alla cultura liberale di matrice risorgimentale, visto che Giorgia Meloni parla sempre di patrioti. In particolare questo partito, che è significativamente “romano” non sembra abbia gli adeguati collegamenti con il mondo che naturalmente è presente nella capitale d’Italia che, ricordo sempre, è la città dei ministeri, della più grande università d’Europa e di altri atenei (uno straordinario polo di ricerca), degli ordini professionali, delle supreme magistrature, dei grandi enti pubblici. Da questo mondo, variegato e vivace, sicuramente competente, Fratelli d’Italia non ricava apporti significativi, tanto è vero che per individuare il candidato, una figura che, insieme ai possibili assessori, doveva emergere nel corso degli anni, dall’indomani della vittoria di Virginia Raggi, si è dovuto ricorrere ad un dignitoso avvocato, noto soprattutto agli ascoltatori di una radio privata, sconosciuto ai più, mentre bisognava scegliere chi nel corso del quinquennio avesse guidato un’equipe di politici e tecnici che si fossero occupati dei problemi della città.

Il risultato dell’elezione presidenziale, affrontata con molta baldanza ritenendo di essere maggioranza relativa, rivela una straordinaria ingenuità da parte del Centrodestra, soprattutto di Matteo Salvini che si è intestato il compito di rappresentare Forza Italia e Fratelli d’Italia evidentemente con scarsa capacità di coordinamento, come dimostra l’esito delle votazioni, a cominciare dalla candidatura di Maria Elisabetta Alberti Casellati che, da Presidente del Senato, è stata mandata allo sbaraglio, tanto da non ottenere neppure i voti del suo partito, Forza Italia, al quale devono ragionevolmente essere attribuiti i voti ottenuti da altri esponenti di quel partito.

Una debacle, uno sfacelo, una Caporetto, come si sono espressi in giornali, frutto di inadeguata valutazione della realtà. Che un partito il quale ambisce a governare non può permettersi.

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