sabato, Novembre 23, 2024
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La tregua dopo la tempesta

di Salvatore Sfrecola

È tempo di relativa bonaccia nel mondo politico, dopo la tempesta della votazione per il Presidente della Repubblica finita per disperazione con la (ri)elezione di Sergio Mattarella. Relativa o meglio apparente la tregua perché ci sono ferite da rimarginare, dissidi da tentare di ricomporre. Le ferite che nel centrodestra hanno lasciato le lacerazioni sulla scelta della candidature al Quirinale e, soprattutto, sul metodo seguito. Dimostrazione palese che la coesione tra Forza Italia, Lega e Fratelli d’Italia era solo apparente, con conseguente apertura di una stagione di forti dissidi non dissimulati, in particolare da Giorgia Meloni, come a proposito della posizione assunta da Silvio Berlusconi che, sulle ceneri di quello che fu il Centrodestra parlamentare, all’avventata iniziativa di Matteo Salvini sulle prospettive di dar vita ad un partito repubblicano di stampo statunitense, ha risposto dicendo che per lui il futuro di Forza Italia è nel modello del Partito Popolare Europeo.

Ed è tregua apparente tra i partiti, anzi momentanea, perché se per molti a guidare la mano che ha scritto sulla scheda il nome del candidato poi eletto è stata la preoccupazione per il futuro della legislatura e personale (tra quanti temono di non essere rieletti, in ragione del minore numero di deputati e senatori, e quanti hanno la certezza matematica di non varcare più i portoni delle Camere, in ragione del calo dei consensi) è inevitabile che tra qualche mese, al più tardi in vista delle elezioni della primavera del 2023, i partiti cercheranno di smarcarsi sui temi più controversi della politica del governo Draghi.

Oggi la tregua fa comodo a tutti, perché la politica deve tentare di recuperare credibilità agli occhi degli elettori poiché non basta aver detto no all’elezione di un Presidente della Repubblica “tecnico” (tra Belloni, Cartabia, Cassese e Frattini, tra i più gettonati) quando il governo del Paese è stato affidato da quei partiti ad estranei al mondo politico perché, come ricorda Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera di oggi (“Nostalgie senza futuro”), “quando arrivano i professori, è perché i professionisti hanno fallito”. E i cittadini sono tanto consapevoli del fallimento della politica da non andare a votare, da ultimo a Roma, dove al municipio I, nel cuore della città, per le elezioni suppletive per la Camera ha votato solo l’undici per cento degli aventi diritto, nell’assoluto disimpegno del Centrodestra che avrebbe avuto il dovere di tentare di prendersi una rivincita dopo la sonora sconfitta subita alle elezioni capitoline, anche considerato che in palio era il seggio della Camera lasciato libero da Roberto Gualtieri, eletto sindaco di Roma.

Scrive ancora Cazzullo: “forse i politici sottovalutano il discredito che ancora li circonda nell’opinione pubblica, anche perché non sono stati scelti dai cittadini bensì designati dai capi partito. Come ha fatto notare un ex che non può essere accusato di ubbie antipolitiche, Massimo D’Alema, i parlamentari non si sono conquistati il seggio sul territorio, tra la gente, ma nell’ufficio o più spesso nell’anticamera del segretario. Questo toglie loro credibilità e fa crescere in noi la nostalgia dei collegi uninominali – quelli da centomila elettori previsti dalla legge che porta il nome di Mattarella, non quelli troppo grandi imposti dalle norme in vigore – dove chi ha un voto in più viene eletto e rappresenta una comunità che può confermarlo o sostituirlo”.

È il tema della legge elettorale, spesso sottovalutato da quanti fanno proposte di ingegneria costituzionale parlando di Repubblica presidenziale o semi parlamentare ignorando che, al fondo, il problema è quello della selezione della classe politica, cioè del sistema elettorale che assicura in un ordinamento, come quello del Regno Unito, il buon funzionamento dell’istituzione governo che a parole è la grande preoccupazione della politica, cioè la stabilità e la capacità operativa dell’esecutivo. Invece i nostri partiti puntano al proporzionale che è lo strumento attraverso il quale si moltiplicano i partiti, anche dove esiste uno sbarramento percentuale per entrare in Parlamento perché nella moltiplicazione dei partiti sta l’acquisizione di una fetta di potere, magari esclusivamente di carattere interdittivo, per non dire ricattatorio, che impedisce il formarsi di forti partiti, di una sicura maggioranza e di una adeguata opposizione che, non dobbiamo mai dimenticare, è la forza della democrazia e lo stimolo per la maggioranza di governo.

Oggi il sistema politico è frantumato e così lo vogliono i leader che, nella concentrazione del consenso in grandi movimenti perderebbero gran parte del loro potere. Lo dimostrano, se ne avessimo il dubbio, i micropartiti tipo quelli di Carlo Calenda, Giovanni Toti, Luigi Brugnaro o Maurizio Lupi, per non dire di Matteo Renzi leader spregiudicato di un partito che nei sondaggi ondeggia sempre intorno al due per cento. Continuano ad essere proposte soluzioni che spostano l’asse dell’attenzione verso la repubblica presidenziale o semipresidenziale, all’americana o alla francese, che dovrebbe assicurare governabilità ma può diventare l’anticamera di una dittatura.

Democrazia significa innanzitutto alternanza al governo, tra progressisti e conservatori, che farebbe fare all’Italia un passo avanti significativo rispetto ad esperienze della prima Repubblica quando, grazie alla conventio ad escludendum, da un lato, del Partito Comunista Italiano, dall’altro del Movimento Sociale Italiano, il potere era salvamente in mano del partito di centro, la Democrazia Cristiana, che aveva intorno una costellazione di satelliti, costituiti da micro partiti, il Socialdemocratico, il Repubblicano, il Liberale, ai quali si rivolgeva, di volta in volta, per formare il governo, o anche per l’elezione del Presidente della Repubblica.

Credo che una democrazia moderna non possa prescindere da un sistema maggioritario che si basi su forti coalizioni rette da una base solida su valori di libertà e di democrazia di stampo europeo. Per far questo dovremmo guardare all’esperienza secolare del Regno Unito che si basa su una legge elettorale a collegio uninominale che assicura la leadership governativa al capo del partito che risulta vincitore delle elezioni, sorretto da un gruppo parlamentare di persone libere perché legate al territorio e al consenso che sul territorio ottengono, ma unito da un idem sentire sui valori della democrazia e della libertà. È vero che a Londra, per la presenza di un sovrano che effettivamente è il custode della legalità costituzionale, il passaggio dall’una all’altra parte politica fra conservatori e laburisti non determina quel pericolo per le libertà che in Italia è diventato crisi di sistema. Ma allora sarebbe sufficiente una riforma che, insieme ad una legge elettorale maggioritaria, prevedesse l’elezione diretta del Capo dello Stato, in tal modo svincolato dal rigido controllo dei partiti, anche di quelli che lo avranno designato.

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