di Salvatore Sfrecola
Ai più sarà parso sicuramente normale che, alla vigilia dell’udienza del 15 febbraio, quando la Corte costituzionale sarà chiamata a pronunciarsi, ai sensi dell’art. 2 della legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 1, sulla ammissibilità dei quesiti referendari proposti ai sensi del secondo comma dell’art. 75 della Costituzione da varie forze politiche in tema di giustizia, il Presidente di quel Collegio, il Prof. Giuliano Amato, abbia detto la sua, sia pure limitatamente al metodo da seguire nel giudizio, come riporta un tweet della Corte costituzionale.
“È banale dirlo ma i referendum sono una cosa molto seria e perciò bisogna evitare di cercare ad ogni costo il pelo nell’uovo per buttarli nel cestino”. Ed ha aggiunto che “davanti ai quesiti referendari ci si può porre in due modi: o cercare qualunque pelo nell’uovo per buttarli nel cestino oppure cercare di vedere se ci sono ragionevoli argomenti per dichiarare ammissibili referendum che pure hanno qualche difetto. Noi dobbiamo lavorare al massimo in questa seconda direzione, perché il nostro punto di partenza è consentire, il più possibile, il voto popolare”.
Ed è banale dire, per riprendere un’efficace espressione del Presidente, che la volontà popolare debba essere assolutamente tutelata, anche quando l’esito positivo del referendum possa far intravedere effetti di illegittimità sulla normativa che residua dopo l’abrogazione della legge oggetto del quesito. Tuttavia, a mio giudizio, chi è chiamato a presiedere un organo che ha il delicato compito di emettere una decisione importante, come quella sulla ammissibilità dei quesiti referendari, non deve anticipare neppure lo stato d’animo con il quale la Corte si appresterebbe a giudicare. Neanche se, com’è ovvio, l’impegno debba essere quello di accertare se vi siano “ragionevoli argomenti” per l’ammissibilità di quesiti che “pure hanno qualche difetto”. Che non dice di quale entità e rilevanza siano, tra quelli che attengono alla separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri, alla responsabilità civile diretta dei magistrati, alla riforma del Consiglio Superiore della Magistratura, per richiamare i quesiti più rilevanti.
Insomma, una dichiarazione, per un verso “banale” per un altro inopportuna. Un Giudice, com’è la Consulta, “Giudice delle leggi” non fa sapere come la pensa, sia pure per dire che non va cercato il pelo nell’uovo per dichiarare inammissibile un quesito.
Semplicemente non si dice. Ma se questo avviene, se il Presidente della Corte esterna queste sue considerazioni, che avrebbe dovuto mantenere riservate, è perché nella “civiltà della comunicazione” c’è in molti il desiderio di apparire, che non è del giudice ma del politico che è di molti dei componenti della Consulta, soprattutto di coloro che hanno una storia personale intrisa di politica. Amato è stato parlamentare, più volte ministro, vicepresidente e Presidente del Consiglio dei ministri. E siccome è un brillante ed arguto oratore non ha tralasciato l’occasione di dire la sua. E, siatene certi, il “pelo nell’uovo” da lui evocato sarà richiamato ancora, quando, depositate le motivazioni della decisione, ci sarà chi dirà che quel “pelo” è stato dalla Corte ricercato e tenuto in considerazione, mentre altri loderà l’apertura del Collegio per averlo ignorato nonostante i quesiti abbiano “qualche difetto”. Con l’effetto finale, negativo, di accentuare agli occhi del cittadino il carattere “politico” della Consulta.