domenica, Novembre 24, 2024
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Ucraina, la dignità dell’appartenenza e l’invito alla resa

di Salvatore Sfrecola

Che strano paese l’Italia, che celebra e ricorda, in ogni occasione, il mito della resistenza al nazifascismo, una guerra di popolo contro l’invasore, e storce il naso quando gli ucraini ed il loro presidente decidono di resistere all’invasione dell’esercito di Putin. E lo fanno nella disperata consapevolezza di essere, sul piano militare, infinitamente più deboli. Torna, così, a risplendere la forza delle idee, il coraggio delle proprie azioni, la difesa dell’identità che fa, di una massa di uomini e donne, un popolo, una nazione.

Chi storce il naso, dunque, è molto probabile che voglia evitare di fare i conti con la propria coscienza di italiano che di questa appartenenza si ricorda esclusivamente in occasione di qualche impegno sportivo internazionale, quando recupera un tricolore e prova a cantare le prime strofe dell’inno nazionale. Le prime, perché andare oltre sarebbe impossibile per i più.

La tesi è quella che gli ucraini ed il loro presidente non abbiano considerato il rapporto danni/benefici e quante vite umane valga la dignità, la difesa della patria. Per cui Volodymyr Zelensky dovrebbe issare bandiera bianca, anche perché sapeva bene che l’aspirante zar di tutte le Russie aveva già manifestato in un articolo del 12 luglio 2021 intitolato “Sull’unità storica di russi e ucraini” l’evidente volontà di annettersi quei territori che, sosteneva, furono ceduti illegittimamente nel 1954. Circostanza che dovrebbe far intendere, anche ai più sprovveduti, che tutto il resto, la Crimea, il Dombass e le stragi di anni addietro che reciprocamente vengono rinfacciate sono solamente un pretesto e neppure credibile. Anche perché se uno stato ritiene che un vicino abbia commesso massacri a danno di una comunità di riferimento non aspetta otto anni per reagire e chiedere giustizia.

Viene, dunque, da chiederci se in Italia sarebbe possibile che, come in Ucraina, anche in assenza di un ordine dell’autorità si trovassero spontaneamente ad imbracciare le armi tutti gli uomini dai 18 anni ai 60 ed oltre, come tante giovani donne che non hanno pensato di lasciare il paese per mettersi al riparo dalle bande e dai missili dell’esercito di Putin. Colpisce che queste famiglie, giunte al confine del loro paese, si separino, le donne, i bambini ed i vecchi fuori dall’Ucraina, mentre gli uomini rimangono a combattere per la loro patria. Anzi, molti, residenti all’estero, tornano per arruolarsi e trovano accanto stranieri desiderosi di aiutarli per difendere l’integrità dell’Ucraina. Noi italiani conosciamo bene queste disponibilità umane perché nell’800, in occasione dei moti liberali del nostro Risorgimento, combatterono per l’unità d’Italia, accanto all’esercito sardo ed alle Camicie rosse anche volontari provenienti da mezza Europa, ungheresi come Stefano Türr, Capitano dei Cacciatori delle Alpi, ad esempio, mentre il piemontese Santorre di Santarosa, Conte di Pomerolo, andava a morire a Navarino, chiamata anche Sfacteria, combattendo per l’indipendenza della Grecia.

E comunque, merita di essere sottolineato come, nel ringraziare per l’accoglienza offerta da altri popoli europei, come dagli italiani, le donne ucraine dicono sempre che il loro desiderio è di tornare, appena possibile, in patria. Non sono emigranti. È un evento tragicamente istruttivo la guerra che l’esercito di Putin conduce in Ucraina perché, nell’era del consumismo e della globalizzazione, nella quale si celebra il “cittadino del mondo” e lo “stato senza frontiere”, c’è ancora chi, mettendo a rischio il bene supremo della vita, imbraccia un’arma per difendere la propria terra, la propria identità da chi vorrebbe annullarla, anche imponendo, come era stato fatto al tempo dell’URSS, in Ucraina e negli altri stati satelliti, lo studio della lingua russa.

L’orgoglio degli ucraini, che incrina certe italiche certezze, può forse stimolare nei nostri compatrioti, che ne risultano privi, il senso di appartenenza che è consapevolezza della propria storia politica e culturale in un contesto paesaggistico di rara bellezza, arricchita, nel corso dei millenni, dall’opera dei nostri progenitori, i quali, nel coltivare la romanità prima e l’italianità, poi, sulla base delle straordinarie esperienze dei singoli territori, dall’arte all’artigianato, all’enogastronomia, non hanno mai inteso escludere chi si fosse affacciato ai confini del Bel Paese con una pelle di colore diverso da quello che prevale In Italia o professasse una religione che non riconoscesse il primato del Vescovo di Roma.

Accoglienti gli italici, del resto, lo sono stati sempre, fin dai tempi dell’antica Roma che, non va dimenticato, ha conosciuto la prima legge sull’asilo, senza che si immagini una popolazione indifferenziata che non è un popolo, perché di una comunità si fa parte solamente quando se ne condividono gli ideali di fondo, i valori civili e spirituali, come si sono sviluppati e consolidati nel corso del tempo. Per questo va considerata la ragione della regolamentazione del diritto di cittadinanza che deve prende atto che vivere su un territorio non significa necessariamente condividere l’identità di un popolo. Questa idea indifferenziata non giova alle persone accolte, mentre lede il senso della identità degli altri.

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