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Per non morire “dem” (cioè PD) e tornare a fare politica

di Salvatore Sfrecola

Si è rivelato clamorosamente sbagliato quel titolo “Non moriremo democristiani”, con il quale Luigi Pintor, per Il Manifesto del 28 giugno 1983, aveva commentato la “quasi sconfitta” della Democrazia Cristiana nelle elezioni che avevano registrato la forte avanzata del Partito Comunista Italiano. Di quell’errore di prospettiva dava conto la Lega nel 2015, in occasione della proposta di Matteo Renzi, all’epoca Segretario del Partito Democratico, di candidare Sergio Mattarella alla Presidenza della Repubblica. Distribuendo fotocopie di quel vecchio articolo la Lega voleva dimostrare che la DC era risorta come l’araba fenice dalle sue ceneri perché, prima di confluire nel PD, il partito erede della tradizione comunista, Mattarella aveva militato nella sinistra DC. Successivamente lui ed altri democristiani avrebbero dato vita alla Margherita e all’Ulivo, per poi confluire nel Partito Democratico.

Insomma, la vittoria del PD nelle elezioni presidenziali era, in realtà, un successo della vecchia DC, tornata alla ribalta sotto mentite spoglie, attraverso Matteo Renzi e Sergio Mattarella.  Per cui “moriremo democristiani”, perché il PD in molti dei suoi uomini e comunque nella gestione del potere è come la vecchia DC. Democristiano nella cultura e nei tratti anche esteriori, nel modo di argomentare e di parlare in pubblico, è Enrico Letta, Segretario del PD, come Matteo Renzi, a capo di Italia Viva, democristiano nei tratti appare Giuseppe Conte, alla guida di un movimento, quello dei 5 Stelle, che si era presentato con l’intento rivoluzionario di rinnovare la politica aprendo il Parlamento come una scatoletta di tonno, fautore della democrazia diretta, e che è stato capace di piazzare qua e là nelle istituzioni persone di fiducia, magari perché compagni di scuola di questo o di quel leader. Democristiano è Carlo Calenda, che presiede Azione, e Silvio Berlusconi, leader di Forza Italia, un partito di ex DC e di qualche reduce del Partito Socialista craxiano. Anche i leghisti più significativi, da Fontana a Zaia,appaiono sempre più democristiani della nuova generazione.

Il vero erede della DC, tuttavia,è il PD con la sua capacità di fare rete con presenze significative nei posti che contano, dai ministeri ai grandi enti pubblici, dalle università alle magistrature, agli ordini professionali. Piazzando persone che sanno gestire il potere. Non solo amici, ma personalità qualificate, magari “di area” alle quali è assicurata anche la “copertura”, mediatica e istituzionale, necessaria perché, quando cambia il riferimento politico, rimangano indisturbati al loro posto, anzi spesso ulteriormente valorizzate. Com’è accaduto ai tempi del Governo Berlusconi-Fini nella convinzione assurda che nominare uno di sinistra assicuri una copertura su quel fronte.

Questa è la regola elementare della gestione del potere. È stata la regola della DC ma anche del vecchio PCI e adesso del PD che Marcello Veneziani, una delle menti più lucide della vasta area di destra, opinionista, una profonda cultura storica e filosofica, vorrebbe smantellare. Perché, scrive su La Verità di ieri, 27 marzo, “se vogliamo tornare a fare politica bisogna scardinare la cupola dei dem”. Di quel partito che “benché perdente nell’urna domina i gangli del potere e azzera il dissenso. La sinistra pensante dovrebbe liberarsi”.

L’analisi di Veneziani è assolutamente corretta. Viviamo da troppi anni in una “democrazia dimezzata, dove i Dem sono diventati l’Asse inamovibile, il Cardine di Stato, la guardia bianca degli Assetti costituiti, in ogni settore, a dispetto del voto popolare: dalle istituzioni all’Europa, dalla magistratura alla sanità, dalla cultura all’editoria, dalla Rai ai grandi media” E aggiunge “è una situazione insopportabile, che avvilisce la libertà e mortifica le differenze di idee e di opinioni, impone un’agenda e un canone ideologico con le sue priorità, da cui non si può derogare. Chi non concorda, o meglio non si sottomette a quel quadro, è per definizione un eversore, un fascista, un nemico dell’Europa, della Democrazia, della Modernità e se insiste è anche un nemico dell’umanità”.

Assolutamente d’accordo. Ne ho scritto all’indomani della mia esperienza a Palazzo Chigi quale Capo di Gabinetto del Vicepresidente del Consiglio Gianfranco Fini, cinque anni in un osservatorio privilegiato nella sede del Governo, che tanto avrebbe potuto fare per liberare il Paese, che lo aveva chiesto con un vastissimo consenso al Centrodestra nel 2001, dalla cappa delle sinistre. Fu “Un’occasione mancata”, così titolai quelle riflessioni ancora oggi attuali perché allora e successivamente il Centrodestra non è stato capace di penetrare nelle stanze del potere. È rimasto sull’uscio, privo di quella classe politico amministrativa che consente di far funzionare l’apparato e, pertanto, di realizzare l’indirizzo politico emerso dalle urne. Per questo il Centrodestra vince le elezioni e, al termine della legislatura, viene mandato a casa. Non sa governare. E quando vanta l’esperienza dei comuni e delle regioni che amministra dimostra di non aver capito che dirigere un ministero è cosa molto diversa, che la gestione della finanza pubblica non è la stessa cosa che spendere i fondi regionali della sanità trasferiti dallo Stato.

Manca una visione d’insieme della macchina pubblica, la capacità di immaginare la riforma della Pubblica Amministrazione che, infatti, affida a personaggi assolutamente inadatti come Giulia Bongiorno o Renato Brunetta ai quali manca l’esperienza per capire che a questo Paese serve una profonda revisione delle attribuzioni e delle competenze dei ministeri, una riforma alla Cavour, insomma, quella che si era sperato volesse fare Draghi che, nel suo discorso di insediamento dinanzi alle Camere, aveva evocato il grande uomo di governo il quale aveva immediatamente compreso che non avrebbe potuto trasformare il piccolo Piemonte e, poi, l’Italia, senza poter contare su un apparato efficiente, capace di tradurre in tempi brevi le idee della politica in concrete realizzazioni.

Veneziani concorda sul fatto che non è possibile contare sul centrodestra perché reputa “quell’alleanza barcollante e legata a troppe variabili assai labili e ambigue”. E crede che “il punto di partenza della politica non debba essere il solo compattarsi dell’alleanza Meloni-Salvini-Berlusconi ma la ricerca di allargare un’alleanza preliminare in funzione alternativa rispetto alla dominazione dem. Sarà ardua o visionaria questa prospettiva ma è necessaria se si vuole davvero compiere una vera svolta”. Ed indica possibili alleati in personalità della sinistra, anche estrema, come Marco Rizzo, orgogliosamente comunista, come se la storia non avesse insegnato niente, o filosofi come Massimo Cacciari, sociologi come Domenico De Masi, opinionisti come Pietro Sansonetti, tutta brava gente, che dice cose sensate ma non saprebbe come realizzarle. Perché in Italia la riforma della Pubblica Amministrazione è affidata a chi non è mai entrato in un ufficio e non si è seduto accanto al funzionario che cura una pratica, e non si è scontrato con termini assurdi, adempimenti inutili o ripetitivi, duplicazioni di competenze. O la riforma della Giustizia messa in mano a chi non è mai entrato in un tribunale. In un caso e nell’altro per parlare dei massimi sistemi che si scontrano con la realtà di ogni giorno. Quella che interessa al cittadino elettore. Che, infatti, da tempo diserta le urne.

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