Corte di cassazione
Sezioni Unite Civili
n. 12442 – Pres. (ff) D’Ascola – Rel. Marotta – Pg. De Matteis – De Jorio Rosada De Sangro J. P. (avv.ti F. de Jorio e S. Sfrecola) c. Pontificia Università Lateranense (avv.ti P. Sandulli e A. Colavecchio (avverso la sentenza n. 3670/2021 del Consiglio di Stato)
Giurisdizione – Pontificia Università Lateranense – Ammissione al dottorato in diritto civile – Giurisdizione italiana
Spetta al giudice italiano la cognizione della controversia insorta a seguito della mancata ammissione al ciclo di dottorato in diritto civile presso la Pontificia Università Lateranense
FATTI DI CAUSA
- Jean Paul De Jorio Rosada de Sangro proponeva ricorso al TAR del Lazio per ottenere l’annullamento del provvedimento della Pontificia Università Lateranense che aveva respinto la sua domanda di ammissione al ciclo di dottorato (Ph.D) in diritto civile a causa del fatto che, secondo la Pontificia Università, la laurea in giurisprudenza conseguita dal de Jorio in Italia non era valida per l’accesso al dottorato. Domandava il conseguente risarcimento del danno.
- II TAR, con sentenza n. 12361/2020, riteneva innanzitutto la sussistenza della giurisdizione del G.A. per essere la questione devoluta rientrante nel novero delle attività di “istruzione, educazione e cultura”, diverse, ai sensi dell’art. 16 della l. n. 222 del 20 maggio 1985, da quelle di religione o di culto e richiamava Cass., Sez. Un., 18 settembre 2017, n. 2154 secondo cui “la Pontificia Università Lateranense rientra tra gli istituti ecclesiastici di educazione ed istruzione e, come tale, non è un soggetto sovrano internazionale (o un suo organo), né è annoverabile tra gli ‘enti centrali della Chiesa cattolica’, esentati da ogni ingerenza da parte dello Stato italiano, ai sensi dell’art. 11 del Trattato Lateranense del 11 febbraio 1929”.
Quanto al merito, considerava il ricorso fondato atteso che il ricorrente, titolare di titolo accademico conseguito net vigore del precedente ordinamento come laurea specialistica in giurisprudenza, aveva titolo ad essere ammesso al dottorato di ricerca ambìto in quanto la sua laurea era ad ogni effetto equivalente alla laurea magistrale.
Annullava, pertanto, il provvedimento di rigetto della domanda del De Jorio Rosada di ammissione al ciclo di dottorato.
- La Pontificia Università Lateranense proponeva appello deducendo, in particolare, la violazione e falsa applicazione dell’art. 11 del Trattato Lateranense del 11 febbraio 1929.
- Il Consiglio di Stato, con sentenza n. 3670/2021, riteneva fondato ed assorbente il dedotto difetto di giurisdizione del giudice italiano.
Valorizzava, al riguardo, la Dichiarazione della Segreteria di Stato della Santa Sede, prot. n. 101.993/P del 13 febbraio 2019, che qualifica la Pontificia Università Lateranense ‘ente centrale della Chiesa Cattolica’ cosi da escludere la giurisdizione del giudice adìto e di qualsiasi altro giudice nazionale ai sensi dell’art. 11 del cod. proc. amm.
Rilevava che tale Dichiarazione era successiva alla decisione di questa Corte a Sezioni Unite n. 2157/2017 cit., decisione comunque non risolutiva atteso che dirimeva unaquestione attinente a un rapporto di lavoro, mentre nel caso di specie trattavasi di ammissione a un corso di dottorato di ricerca.
In ogni caso, evidenziava che, quandanche fosse stata riconosciuta la sussistenzadella giurisdizione del giudice adìto, il ricorso di primo grado non si sarebbe potuto comunque accogliere.
Assumeva, al riguardo, che il titolo di dottore di ricerca rilasciato dalla Pontificia Università Lateranense (al cui conseguimento aspirava parte appellata) non era riconosciuto dall’ordinamento italiano. Ciò determinava l’inammissibilità del ricorso di primo grado (per difetto di interesse) in quanto il conseguimento di quel titolo non avrebbe potuto arrecare all’aspirante alcuna utilità.
- Avverso tale sentenza Jean Paul De Jorio Rosada de Sangro ha proposto ricorso per cassazione per motivi attinenti alla giurisdizione.
- La Pontificia Università Lateranense ha resistito con controricorso.
- II Procuratore Generale ha concluso per la declaratoria di inammissibilità del ricorso per non essere il Consiglio di Stato incorso in errore nel negare la giurisdizione del giudice italiano.
- Entrambe le parti hanno depositato memorie.
RAGIONI DELLA DECISIONE
- Con il primo motivo il ricorrente denuncia la violazione dell’art. 360, n. 1,cod. proc. civ. in relazione all’art. 37 cod. proc. cv. e degli artt. 102 e 103 Cost.
Sostiene che il Consiglio di Stato, declinando la sua giurisdizione ed affermando quella dello Stato Città del Vaticano, è venuto meno alle prerogative che ad esso sono state attribuite dalla Costituzione.
- Con il secondo motivo il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 11 dei Patti lateranensi nonché violazione e comunque falsa applicazione degli art. 3 e 11 del Trattato e dell’art. 2, comma 5 e 22, comma 1, secondoperiodo, degli artt. 11 e 39 del Concordato, le ultime due disposizioni nel testo anteriore all’Accordo del 18 febbraio 1984 ratificato dalla l. 25 marzo 1985, n. 121 nonché della legge n. 222 del 20 maggio 1985.
Sostiene che il Consiglio di Stato non ha tenuto in considerazione i principi affermati dalle Sezioni Unite di questa Corte nella decisione n. 21541/2017 che ha esaminato e risolto il problema della non appartenenza della Pontificia Università Lateranense allacategoria degli Enti Centrali della Chiesa cattolica.
Assume che la Dichiarazione della Segreteria di Stato della Santa Sede del 13 febbraio 2019, successiva alla pronuncia suddetta, non può modificare l’assetto giuridico del problema come specificato dalle Sezioni Unite.
Rileva che l’attribuzione dei titoli di studio o di dottorato o di istruzione superiore non riguarda il governo della Chiesa ma integra una normale attività jure gestionis e come tale è soggetta alla giurisdizione italiana.
- Con il terzo motivo il ricorrente denuncia violazione e comunque falsa applicazione dell’art. 360, n. 1, cod. proc. civ. in relazione alla “Convenzione sul riconoscimento dei titoli di studio relativi all’insegnamento superiore nella Regione europea delI’11/4/1997” sottoscritta e ratificata dall’Italia ed anche dallo Stato del Vaticano, nella c.d. “Area di Lisbona”; violazione e comunque falsa applicazione dell’art. 360, n. 1, cod. proc. civ. in relazione all’“Accordo tra Repubblica Italiana e Santa Sede per l’applicazione della Convenzione di Lisbona ratificato con d.P.R. 27/5/2019, n. 63”.
Deduce che l’assunto (ulteriore) del Consiglio di Stato si pone in contrasto con la disciplina in materia di mutuo riconoscimento dei titoli di cui alla Convenzione citata e di conseguenza con il d.P.R. che ad essa ha dato applicazione.
- Con il quarto motivo il ricorrente denuncia violazione e comunque falsa applicazione della Convenzione di New York, art. 2, paragrafo 1 lett. b) del 2 dicembre2004.
Sostiene che nella specie difetta qualsiasi collegamento che possa ricondurrenell’ambito dell’esercizio dello jus imperii, né tanto meno si versa in ipotesi di ‘religione’ o di ‘culto’ che potrebbero astrattamente giustificare la non ingerenza dello Stato italiano.
- Sono fondati il primo e il secondo motivo di ricorso nei termini di seguito illustrati (e determinano l’assorbimento degli altri).
La questione muove dall’interpretazione dell’art. 11 del Trattato fra l’Italia e la Santa Sede dell’11 febbraio 1929, reso esecutivo in Italia con legge 27 maggio 1929 n. 810 (il cui testo è rimasto invariato pur a seguito della l. 25 marzo 1985, n. 121 – Ratifica ed esecuzione dell’accordo, con protocollo addizionale, firmato a Roma il 18 febbraio 1984, che apporta modificazioni al Concordato Lateranense dell’11 febbraio 1929, tra la Repubblica italiana e la Santa Sede), in base al quale sono «esenti da ogni ingerenza da parte dello Stato Italiano», gli «enti centrali della Chiesa».
- Nella giurisprudenza di legittimità tale non ingerenza è stata variamente interpretata.
- Si è ritenuto, in tempi non recentissimi, da parte della Cassazione penale (sentenza 9 aprile 2003, n. 22516) che tale obbligo di non ingerenza non equivale alla creazione di una ‘immunità’, ma si riferisce essenzialmente all’attività patrimoniale degli enti anzidetti.
La norma, dunque, non diversamente dall’abrogato art. 27 del Trattato, si riferirebbe alla mera ingerenza dell’autorità amministrativa statuale in ordine a profili economici e privatistici interni e non avrebbe giammai introdotto neppure per gli enti centrali della Chiesa alcuna rinuncia pattizia alla giurisdizione italiana.
Una interpretazione in senso difforme finirebbe (secondo la citata cassazione penale) per introdurre una immunità generalizzata non contemplata né dai patti lateranensi né dalle consuetudini internazionali. In sostanza sarebbe erronea l’equazione non ingerenza = immunità permanendo al contrario la piena tutela giurisdizionale (civile e penale) di diritti e interessi dei cittadini.
Nella medesima pronuncia n. 22516/2003 si è anche rilevato che la denominazione «enti centrali della Chiesa cattolica» (i quali, come detto, ai sensi dell’art. 11 del Trattato sono «esenti da ogni ingerenza da parte dello Stato») non ha rispondenza nel diritto canonico: trattasi di una figura civilistica introdotta dal citato art. 11 che ha il fine di ampliare, appunto, l’incidenza delle garanzie della l. 13 maggio 1871 n. 214, poi abrogata dall’art. 26 del Trattato Lateranense. Gli stessi vanno individuati nelle Congregazioni, neiTribunali e negli Uffici che costituiscono la Santa Sede in senso lato e hanno personalità giuridica. Per converso, non ogni Ente che abbia personalità giuridica e autonomia patrimoniale è classificabile come Ente centrale (arg. anche dalla l. 20 maggio 1985, n. 222). Gli Enti centrali sono organismi che costituiscono la Curia romana e provvedono al governo supremo, universale della Chiesa cattolica nello svolgimento della sua missione spirituale nel mondo. In detta pronuncia si è anche precisato che, ai fini dell’annoverabilità di un ente o istituto ecclesiastico tra gli «enti centrali della Chiesa» – non è sufficiente che esso sia dotato di personalità giuridica, ma accorre anche che rientri fra gli organismi che, come le Congregazioni, i Tribunali e gli Uffici, costituiscono la SantaSede in senso lato, facendo parte della Curia romana e provvedendo al governo supremo, universale della Chiesa cattolica nello svolgimento della sua missione spirituale nel mondo(cosi è stato escluso che possa essere qualificata come «ente centrale» la Radio vaticana,giacché essa, pur dotata di personalità giuridica e di autonomia patrimoniale, è indicata, nella Costituzione apostolica “Pastor bonus” del 28 giugno 1988, art. 186, soltanto come istituto che, per quanto collegato con la Santa Sede, non fa parte, tuttavia, della Curia romana, avendo la funzione di prestare un servizio ritenuto necessario ed utile al SommoPontefice, alla Curia ed alla Chiesa universale, allo stesso modo di altri organismi quali il Centro televisivo vaticano, la Biblioteca apostolica, le diverse Accademie pontificie, la Tipografia poliglotta, la Libreria editrice vaticana ed il giornale “L’osservatore romano”).
Sempre in sede penale i principi suddetti sono stati ribaditi da Cass. pen. 6 ottobre 2015, n. 41786 che, in applicazione degli stessi, ha escluso che la Chiesa Episcopale Italiana rientri tra gli enti centrali della Chiesa, avendo competenza non universale, malimitata all’Italia ed ancora da Cass. Pen. 26 aprile 2017, n. 23423 che analoga esclusione ha affermato con riguardo all’Opera Diocesana di Assistenza.
- La giurisprudenza civile di legittimità, pronunciandosi in sede di regolamento di giurisdizione (Cass., Sez. Un., 19 gennaio 2007 n. 1133; Cass., Sez. Un., 1°Agosto 2011, n. 16847; Cass., sez. Un., 11 aprile 2016, n. 7022; Cass., Sez. Un., 18 settembre 2017, n. 21541), ha ritenuto, discostandosi dall’orientamento della Cassazione penale del 2003, che per obbligo di non ingerenza sugli «enti centrali della Chiesa» deve intendersi il dovere, internazionalmente assunto, di non esercitare le funzioni pubbliche della sovranità comunque implicanti un intervento nella organizzazione e nell’azione dei menzionati enti con la conseguenza che l’esclusione non è limitata ai soli poteri pubblici di contenuto amministrativo, ma concerne la sovranità stessa in tutte le sue esplicazioni pubbliche di poteri e funzioni e quindi anche la giurisdizione. Così è stato osservato che dall’art. 11 del Trattato deriva anche l’immunità dalla giurisdizione italiana con riguardoagli «enti centrali della Chiesa», ciò in sintonia con la consuetudine internazionale “par in parem non habet iurisdictionem” recepita dall’art. 10 Cost., comma 1. E stato richiamato il principio già affermato da Cass., Sez. Un., 28 ottobre 2005 n. 20995 secondo cui l’ordinamento giuridico italiano, secondo il disposto dell’art. 10, primo comma, Cost. sopra citato, si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute e daquesta prescrizione la giurisprudenza fa derivare l’immunità degli Stati esteri dalla giurisdizione italiana, in base ad una consuetudine internazionale intesa al rispetto dell’altrui sovranità. Tale immunità riguarda i rapporti giuridici in cui gli Stati stranieri agiscono come soggetti di diritto internazionale ovvero agiscono come titolari di una potestà di imperio nell’ordinamento proprio, ossia come enti sovrani. Inoltre, tale immunità consuetudinaria si estende agli altri soggetti che rivestono, in senso ampio, la qualità di organi dello Stato estero. Si è cosi ritenuto che analoga logica di protezione (dello Stato estero e dei suoi organi) è sottesa all’art. 11 del Trattato Lateranense che, in simmetria con la norma consuetudinaria, riguarda innanzitutto la Santa Sede, la cui “sovranità… nel campo internazionale” è riconosciuta dall’art. 2 del Trattato e riaffermata dall’art. 1 dell’accordo del 18 febbraio 1984, ratificato co L. 25 marzo 1985, n. 121, con cui la Repubblica italiana e la Santa Sede hanno ribadito che sono, ciascuno net proprio ordine, indipendenti e sovrani; ma riguarda anche gli «enti centrali della Chiesa Cattolica».
Come precisato da Cass., Sez. Un., n. 1133/2007 cit., si tratta, con riferimento a quest’ultima espressione, di una formulazione testuale di nuovo conio, rispetto a quella della legge delle guarentigie (art. 8 l. n. 214 del 1871 sopra ricordata), che, nel vietare di procedere a visite, perquisizioni o sequestri di carte, documenti, libri o registri faceva riferimento agli «Uffizi e Congregazioni pontificie rivestiti di attribuzioni meramente spirituali»; tale nuova formulazione risulta in qualche misura chiarita (e delimitata) dal successivo art. 17 del Trattato sulle esenzioni di carattere tributario («Le retribuzioni, di qualsiasi natura, dovute dalla Santa Sede, dagli altri entri centrali della Chiesa Cattolica e dagli enti gestiti direttamente dalla Santa Sede anche fuori di Roma, a dignitari, impiegati e salariati, anche non stabili, saranno nel territorio italiano esenti a decorrere dal 1° gennaio 1929, da qualsiasi tributo tanto verso lo Stato quanto verso ogni altro ente») le quali, in quanto riconosciute alla Santa Sede, agli «altri enti centrali della Chiesa Cattolica» e agli «enti gestiti direttamente dalla Santa Sede», mostrano che la nozione di «enti centrali della Chiesa cattolica» è riferita all’organizzazione centrale del governo della Comunità ecclesiale cui appartengono gli uffici ed i collegi che costituiscono la Curia romana ed è tenuta distinta da quella di «enti gestiti direttamente dalla Santa Sede». Cosi è stata ritenuta non rientrante del novero degli «enti centrali della Chiesa» la Pontificia Università Gregoriana.
Il principio è ripreso anche da Cass. n. 7022/2016 cit. (con riferimento alla Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli) e dalla più recente Cass. n. 21541/2017 cit. (con riguardo proprio alla Pontificia Università Lateranense). Tale ultima decisione ha, in particolare, sottolineato che la previsione di una ‘esenzione da ogni ingerenza’ è diversa dalla semplice ‘non ingerenza’ utilizzata in altre norme del Trattato e dunque non può non comprendere anche il divieto per lo Stato italiano di esercitare funzioni pubbliche autoritative (tra cui rientra l’esercizio della giurisdizione) tali da impedire o ostacolare le funzioni di governo proprie degli enti medesimi.
Va ricordato che le modifiche intervenute con la revisione concordataria del 18 febbraio 1984 hanno portato all’emanazione dell’art. 1: «La Repubblica italiana e la Santa Sede riaffermano che lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno net proprio ordine, indipendenti e sovrani, impegnandosi al pieno rispetto di tale principio nei loro rapporti ed alla reciproca collaborazione per la promozione dell’uomo e il bene del Paese».
Orbene, uno dei cardini dello Stato italiano che costituisce parametro di costituzionalità delle norme di derivazione concordataria è quello del potere del giudice italiano di jus dicere.
Proprio alla luce di tale potere nel richiamato precedente di questa Corte n.21451/2017 è stato ritenuto che la nozione di ‘enti centrali’ non può sopportare dilatazioni concettuali tendenti alla sua generalizzazione, contraria al principio che vuole ‘specifici’ i rapporti tra la Repubblica e le confessioni religiose.
Così, nell’interpretazione anche delle Sezioni Unite, sono «enti centrali», a prescindere dalle qualificazioni operate dal diritto generale della Chiesa, solo i soggetti che, seppur non unicamente a livello ‘costituzionale’ canonico partecipino in modo diretto e funzionale, e non anche in via strumentale, al governo della Chiesa universale.
Nella decisione più recente le Sezioni unite hanno, dunque, concluso per una interpretazione pur sempre restrittiva della espressione «enti centrali della Chiesa» anche se non così rigorosa come nelle pronunce precedenti (dunque, moderatamente restrittiva). Si è, cosi, evidenziato che “in questa prospettiva, per rendere significativa la nozione in esame, deve valorizzarsi l’aggettivo ‘centrale’ (in contrapposizione, come sembra, a ‘locale’ o ‘periferico’), che connota tali enti, riferibile anche alla stessa Santa Sede (art. 17 del Trattato cit.: «Santa Sede e (…) altri enti centrali della Chiesa Cattolica»), e occorre ritenere che l’indicato art. 11 del Trattato si riferisca soltanto agli enti che partecipano in modo strettamente e direttamente funzionale all’organizzazione (appunto) ‘centrale’ del governo della confessione religiosa e di culto a carattere universale denominata “Chiesa Cattolica”, anche se ubicati al di fuori dei confini della Citta del Vaticano: si pensi, al riguardo, non solo agli uffici della Curia romana (ai quali fanno invece esclusivo riferimento, con interpretazione definita ‘eccessivamente’ restrittiva, Cass. pen. n. 22516/2003 cit. e Cass. pen. n. 41786/2015 cit.), quali individuati dalla normativa canonistica (canoni 360 e 361 del codice di diritto canonico; art. 1 della Costituzione apostolica ‘Pastor Bonus’, approvata da Giovanni Paolo II in data 28 giugno 1988), ma anche ad altri enti che presentino ugualmente le indicate caratteristiche (come nel caso, ad esempio, della Conferenza Episcopale Italiana – CEI).
Ciò precisato, la sopra citata Cass. 21451/2017 ha escluso la natura centrale della Pontificia Università Lateranense non riscontrando quella partecipazione in modo strettamente e direttamente funzionale all’organizzazione (appunto) “centrale” del governo della Chiesa Cattolica, ritenendo a tal fine irrilevante l’inserimento nell’all. A punto 21 dell’accordo amministrativo per l’applicazione della Convenzione della sicurezza sociale del 16 giugno 2000 (attinente appunto alla specifica materia della sicurezza sociale e comunque non risolutivo per l’equivocità dell’elencazione), lo svolgimento dell’attività in un immobile extraterritoriale (comportante solo immunità reale e non una extraterritorialità in senso proprio) e richiamando, a sostegno, di detta interpretazione la relazione di accompagnamento del 29 settembre 2015 al disegno di legge diautorizzazione alla ratifica di detta convenzione che aderisce alla tesi (peraltro eccessivamente restrittiva) secondo cui costituiscono enti centrali della chiesa cattolica esclusivamente quelli della curia romana.
- Rispetto al suddetto assetto della Pontificia Università Lateranense il Consiglio di Stato ha, invero, valorizzato la sopravvenuta qualificazione della stessa quale“Ente centrale della Chiesa Cattolica” come rilevabile dalla Dichiarazione della Segreteria di Stato della Santa Sede, port. 101.993/P del 13 febbraio 2019 ed anche il Procuratore Generale ha sottolineato che tale accadimento, in quanto successivo alle Sezioni Unite del 2017, consenta di pervenire ad una soluzione diversa da quella di cui a detto precedente di legittimità e nel senso della insussistenza della giurisdizione italiana (e del giudiceamministrativo).
- Orbene, ritiene il Collegio che la suddetta qualificazione sia, ai fini che qui interessano, irrilevante.
5.6. Nei precedenti di questa Corte da ultimo richiamati si è evidenziato che l’immunità dalla giurisdizione italiana (che attiene ai rapporti giuridici in cui gli Stati stranieri agiscono come soggetti di diritto internazionale ovvero agiscono come titolari di una potestà di imperio nell’ordinamento proprio, ossia come enti sovrani, estendendosi agli altri soggetti che rivestono – in senso ampio – la qualità di Organi dello Stato estero) di cui la Santa Sede, con i suoi Organi ed enti centrali gode in quanto titolare di personalità giuridica di diritto internazionale equiparabile a quella degli Stati sovrani ex art. 11 Trattato tra Santa Sede e Italia in data 11 febbraio 1929 (reso esecutivo, unitamente agliallegati annessi e al Concordato, con l. n. 810 del 1929) e art. 1 Accordo di revisione del Concordato del 18 febbraio 1984 (ratificato con I. n. 121 del 1985), in sintonia con la consuetudine internazionale ‘par in parem non habet iurisdictionem’ recepito all’art. 10 Cost. (Cass. Sez. Un., 1° Agosto 2011, n. 16847; Cass., Sez. Un., 19 gennaio 2007, n. 1133; Cass., Sez. Un., 28 ottobre 2005, n. 20995; Cass., Sez. Un., 19 marzo 1990, n. 2291 Cass., Sez. Un., 17 novembre 1989, n. 4909), non si applica alle attività che non si pongono – ancorché indirettamente – in collegamento funzionale con gli scopi istituzionali della Santa Sede, non costituendo cioé espressione dei poteri autoritativi speciali e di supremazia nonché della sovranità della medesima, in quanto di carattere meramente strumentale e sottordinato rispetto a detti compiti primari e poste in essere jure privatorum neII’ambito dei comuni rapporti della vita di relazione disciplinati dal diritto privato, ancorché esercitati in immobili del territorio italiano con riguardo ai soggetti che vi operano (cfr. Cass., Sez. Un., 2 maggio 2006, n. 10119; Cass., Sez. Un., 19 marzo 1990, n. 2291) e che godono delle immunità riconosciute alle sedi diplomatiche (cfr. Cass., Sez. Un., 6 luglio 2012, n. 11381; Cass., Sez. Un., 2 maggio 2006, n. 10119; Cass., Sez. Un., 30 dicembre 1992, n. 13702; Cass., Sez. Un., 17 marzo 1989, n. 1326; Cass., Sez. Un., 28 settembre 1985, n. 4727).
Ed allora, risolutivo è che nella specie la domanda di accesso al dottorato in diritto civile costituisca una fase dell’offerta formativa assicurata dall’Università (ed in particolare dalla Facoltà di Diritto civile).
Ed infatti, come si rileva dal piano dell’offerta formativa pubblicizzato dalla stessa Pontificia Università Lateranense (e versato in atti dal ricorrente), in coerenza con le caratteristiche proprie della Facoltà di Giurisprudenza della P.U.L., Istituita dalla SantaSede nel 1853 per lo studio delle discipline giuridiche positive e delle altre ausiliarie (si ricorda che con Decreti del Ministero dell’Istruzione e della Ricerca Scientifica della Repubblica Italiana del 2 luglio 2004 e del 21 settembre 2006 la laurea magistrale in Giurisprudenza conseguita nella Facoltà è equipollente al rispettivo titolo italiano), il Ciclo di Dottorato (Ph.D) costituisce un percorso di completamento della formazione nel settore del Diritto, con lo specifico indirizzo alla ricerca negli studi giuridici nella loro prospettiva storica antica e moderna, nella comparazione per aree e istituti e nella dimensione internazionale generale, dell’integrazione sovranazionale e della tutela dei diritti fondamentali della persona.
Nella medesima facoltà, ed a completamento della formazione nel settore del Diritto, è offerto un percorso di alta specializzazione, di durata triennale, che consente il conseguimento del Dottorato di ricerca (Ph.D) per quanti siano in possesso della laurea in giurisprudenza.
Tale ulteriore percorso di formazione e il titolo conseguito sono considerati equipollenti a quelli dell’ordinamento universitario italiano ai sensi del d.P.R. 11 luglio 1980, n. 382.
Si tratta, in sostanza, di un programma di studi che conduce al Dottorato finalizzato a consentire allo studente non solo un ulteriore sviluppo della conoscenza del Diritto sostanziale, ma di intraprendere un percorso per acquisire competenze specialistiche evalori essenziali per una futura attività nei settori della ricerca, dell’insegnamento e delle diverse professioni legali.
Siamo, dunque, in presenza, nel complesso, di formazione del tutto in linea con gli analoghi percorsi accademici previsti dagli ordinamenti universitari degli Stati che hanno preso parte all’imponente processo di armonizzazione dei vari sistemi di istruzionesuperiore europei di cui al c.d. Bologna Process’ del 19 giugno 1999, i cui obiettivi principali sono stati l’armonizzazione dei titoli di studio, anche per l’impiego degli studenti nel mercato europeo e per maggiore competitività della UE, l’adozione di un sistema con due cicli principali (l’accesso al secondo avviene solo dopo il conseguimento del primo che ha durata minima di tre anni), il consolidamento del sistema dei crediti per una maggiore mobilita degli studenti, la promozione della mobilità per studenti e docenti attraverso l’abbattimento degli ostacoli che impediscono la libera circolazione, la valutazione della qualità al fine di determinare volta per volta un benchmark di indirizzo per una migliorecooperazione e cosi la creazione di un’area europea dell’istruzione superiore e la promozione della stessa, poi, su scala mondiale per accrescerne la competitivitàinternazionale.
- Ed allora, discutendosi di ammissione ad un ciclo di dottorato si è certo in ambito di accesso all’istruzione ed in particolare a quella istruzione offerta (ad utenti indifferenziati ancorché selezionabili sulla base del possesso di determinati requisiti) in conformità ai valori di fondo della Pontificia Università Lateranense ma inseritain un più generale contesto di armonizzazione dei percorsi formativi e dei titoli che esclude,nel rapporto tra Università e studente o aspirante all’ammissione al corso di dottorato, la configurabilità di atti jure imperii.
Non si verte, perciò, in ambito di scelte di organizzazione dell’Università che astrattamente potrebbero giustificare una immunità giurisdizionale, né di atti tali da configurare una estrinsecazione immediata e diretta della sovranità.
Non a caso, l’art. 16 della legge 20 maggio 1985, n. 222 (Disposizioni sugli enti e beni ecclesiastici in Italia e per il sostentamento del clero cattolico in servizio nelle diocesi) tiene ben distinte, agli effetti delle leggi civili, le attività di religione o di culto, dirette, ai sensi della lett. a), all’esercizio del culto e alla cura delle anime, alla formazione del clero e dei religiosi, a scopi missionari, alla catechesi, all’educazione Cristiana dalle ‘attività diverse’, quali quelle di cui alla lettera b), di assistenza e beneficenza, istruzione, educazione e cultura e, in ogni caso, commerciali o a scopo di lucro.
Con riferimento all’accesso al ciclo di dottorato in questione, vertendosi, dunque, in tema di istruzione, non può ritenersi che la giurisdizione italiana finirebbe con l’incidere sul potere pubblicistico sovrano relativo all’organizzazione ed all’esercizio delle potestà e funzioni istituzionali dell’Ente internazionale, essendo le determinazioni adottate da quest’ultimo solo afferenti allo jus gestionis dello stesso e non connesse all’esercizio di compiti direttamente espressivi della potestà jure imperii della Santa Sede.
Né è di ostacolo la previsione dell’art. 39 del Concordato nella formulazione anteriore all’Accordo del 1984 («Le università, i seminari maggiori e minori, sia diocesani, sia interdiocesani, sia regionali, le accademie, i collegi e gli altri istituti cattolici per la formazione e la cultura degli ecclesiastici continueranno a dipendere unicamente dalla Santa Sede, senza alcuna ingerenza delle autorità scolastiche del regno»), sostanzialmenteconfermata dall’art. 10, comma 1 , dell’Accordo di revisione del Concordato del 1984 («Gli istituti universitari, i seminari, le accademie, i collegi e gli altri istituti per ecclesiastici e religiosi o per la formazione nelle discipline ecclesiastiche, istituiti secondo il diritto canonico, continueranno a dipendere unicamente dall’autorità ecclesiastica») trattandosi di disposizione che riguarda solo il divieto di ingerenza amministrativa delle “autorità scolastiche” su Enti ed altri istituti cattolici per la formazione degli ecclesiastici.
- Ove pure dovesse riconoscersi, in virtù della Dichiarazione della Segreteria di Stato della Santa Sede, prot. N. 101.993/P del 13 gennaio 2019, la qualificazione della Pontificia Università Lateranense quale ‘ente centrale’ della ChiesaCattolica, resterebbe comunque ferma la giurisdizione italiana per gli atti di mera gestione.
Come già da tempo affermato dal Giudice delle leggi, i requisiti della indipendenza e della sovranità, riconosciuti nell’art. 7 sia allo Stato che alla Chiesa, riflettono il carattere originario dei due ordinamenti. Ma la separazione e la reciproca indipendenza tra i due ordinamenti non escludono che un regolamento dei loro rapporti sia sottoponibile adisciplina pattizia, alla quale legittimamente può risalire la rilevanza di atti promananti da una delle parti, purché questi non siano tali da porre in essere nei confronti dello Stato italiano situazioni giuridiche incompatibili con i principi supremi del suo ordinamento costituzionale, ai quali le norme pattizie non possono essere contrarie (Corte cost. n. 195 del 1972 e n. 30 del 1971).
Tra i principi dell’ordinamento costituzionale vi è, come sopra ricordato, lo jus dicere. Sin da tempi remoti il Giudice delle leggi ha ascritto il diritto alla tutela giurisdizionale “tra i principi supremi del nostro ordinamento costituzionale, in cui è intimamente connesso con Io stesso principio di democrazia l’assicurare a tutti e sempre, per qualsiasi controversia, un giudice e un giudizio” (Corte cost. sentenze n. 18 del 1982 e n. 82 del 1996). In conseguenza il limite alla giurisdizione deve essere giustificato da un interesse pubblico riconoscibile come potenzialmente preminente su un principio, quale quello dell’art. 24 Cost., annoverato tra i ‘principi supremi’ dell’ordinamento costituzionale (Corte cost. n. 18 del 1982); inoltre la norma che stabilisce il limite deve garantire una rigorosa valutazione di tale interesse alla stregua delle esigenze del caso concreto (Corte cost. n. 329 del 1992).
Ed allora, se la finalità di non ingerenza di cui al ricordato art. 11 del Trattato è quella di non ostacolare o impedire gli atti sovrani di governo della generale organizzazione della Chiesa (anche attraverso il suoi enti centrali), occorre ritenere comunque soggetta alla giurisdizione italiana la cognizione delle controversie in cui, come nella specie, si discuta di atti compiuti jure gestionis ipotesi che, diversamente, si tradurrebbe in una iniqua limitazione dei diritti dei contraenti privati.
- Da tanto consegue che vanno accolti i primi due motivi di ricorso, assorbiti gli altri e va dichiarata la giurisdizione del Giudice italiano.
La sentenza impugnata va, pertanto, cassata con rinvio, anche per le spese del presente giudizio di legittimità al Consiglio di Stato, in diversa composizione.
- Non sussistono le condizioni di cui all’art. 13, comma 1, quater d.P.R. n. 115 del 2002.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo e il secondo motivo di ricorso, assorbiti gli altri; dichiara la giurisdizione del Giudice italiano; cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, al Consiglio di Stato, in diversa composizione.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio delle Sezioni Unite Civili della Corte suprema di cassazione, il 25 gennaio 2022.