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2 giugno 2022: una complessa realtà istituzionale

di Salvatore Sfrecola

Grandi festeggiamenti per il 2 giugno, com’è naturale. Eppure, la Repubblica è in crisi. Ne è dimostrazione, proprio in questi giorni, la campagna referendaria che chiama alle urne gli italiani per dire un SI o un NO a quesiti fondamentali in tema di Giustizia. I partiti politici non sono stati in condizione di affrontare i nodi del funzionamento della Magistratura nella sede propria, le Camere, e adesso pensano, se prevarranno i SI, di riuscire a mettere in mora il Parlamento dove loro non sono riusciti ad attuare le riforme che auspicano.

La Giustizia, come l’ordine pubblico, è la ragione stessa dell’esistenza degli ordinamenti generali, quelli che noi chiamiamo, almeno dal ‘500, stati. Perché è nei tribunali che si realizza la tutela dei diritti dei cittadini. Che cercano nelle pronunce dei giudici certezze quanto alla pacifica convivenza della comunità e al riconoscimento dei diritti individuali.

Ma non è solamente in tema di Giustizia che esiste uno scollamento tra Paese reale e Paese legale. Anche nei rapporti tra i poteri dello Stato esiste una alterazione delle regole costituzionali, perché assistiamo quotidianamente alla prevaricazione del Governo sul Parlamento costretto a votare ripetutamente mozioni di fiducia, un istituto al quale si dovrebbe ricorrere solo quando è in pericolo la tenuta di un governo, quando la maggioranza che lo sorregge non è compatta. 

Sono le crepe della democrazia parlamentare. Infatti riprendono quota iniziative dirette ad immaginare di trasformare la repubblica in presidenziale o semipresidenziale o, quanto meno, di far eleggere il Presidente della Repubblica dai cittadini.

Sono sintomi di una crisi profonda che va qualificata “di regime”. Infatti, si chiede una riforma della Costituzione. In un contesto equivoco. Il Capo dello Stato nel nostro ordinamento ha notevoli poteri, che, infatti, esercita: nella scelta del Presidente del Consiglio e dei ministri, nelle nomine degli alti gradi dell’amministrazione, nell’emanazione di provvedimenti d’urgenza, i decreti-legge, avendone accertata la legittimità costituzionale e la “necessità ed urgenza”.

E poiché i referendum riguardano la Giustizia dobbiamo ricordare anche che il Capo dello Stati presiede il Consiglio Superiore della Magistratura, che provvede alla assegnazione dei magistrati alle funzioni direttive. Il “Caso Palamara” ha rivelato influenze politiche, accordi tra partiti e correnti nel conferimento delle funzioni. Ogni giorno molte di queste decisioni vengono impugnate dinanzi al Giudice Amministrativo e sovente annullate. C’è qualcosa che non va. Situazioni alle quali non si pone rimedio.

Il cittadino percepisce una progressiva perdita di efficienza dello Stato. Perché accanto alla Giustizia che denuncia tempi lunghi nei processi civili e penali, assolutamente incompatibili con le esigenze di tutela dei diritti, c’è una Pubblica Amministrazione che non sa rispondere alla richiesta di servizi proveniente dalla comunità nazionale ai vari livelli. La sicurezza, funzione fondamentale dello Stato, è carente, le infrastrutture civili sono inadeguate ad un Paese che mira allo sviluppo economico e sociale. Il sistema viario denuncia insufficiente manutenzione, la rete ferroviaria trascura regioni del Paese che hanno bisogno dei trasporti per le merci e le persone, anche per favorire il turismo. La realizzazione di opere pubbliche ovunque è costosa. I tempi sono assurdi. Le strade di grande comunicazione sono disseminate di cantieri per mesi se non per anni.

Il cittadino ha dato dimostrazione di voler cambiare. Lo ha fatto nel 1992 e seguenti, plaudendo alle azioni giudiziarie che hanno decapitato i partiti della Prima Repubblica e lo ha ribadito più di recente attribuendo rilevanti consensi al Movimento 5 Stelle che prometteva il cambiamento.

Oggi molti rimpiangono la Prima Repubblica, che comunque vantava una classe dirigente di buon livello e delusi dal M5S si rifugiano nell’astensione massiccia. Un errore grave. Una risposta comprensibile, quasi disperata.

Alla vigilia del giorno che ricorda la vittoria contestata nel referendum Monarchia-Repubblica Antonio Polito, brillante editorialista del Corriere della Sera (Il 2 giugno e la doppia lezione), ha esaltato l’equilibrio degli italiani che, divisi sulla scelta istituzionale, hanno saputo poi ritrovare l’unità grazie all’equilibrio di alcune personalità della Democrazia Cristiana. E alla scelta di inviare al Quirinale, con funzione di Capo dello Stato, due personalità di dichiarata fede monarchica, Enrico De Nicola, Capo provvisorio dello Stato, e Luigi Einaudi, il primo Presidente. Che si comportarono come ritenevano si dovesse comportare un Re, ponendosi come arbitri indipendenti tra i partiti. Non sarebbe stato più così, perché al Quirinale sono salite personalità politicamente qualificate da una lunga militanza politica, uomini votati da una maggioranza alla quale hanno dovuto in qualche modo riferirsi nella loro azione quotidiana, nella prospettiva di spianare la strada ad un successore dello stesso orientamento.

Questo distingue i Presidenti dai Re, come si sente dire a proposito della Regina Elisabetta II nei commenti che accompagnano i festeggiamenti per i suoi 70 anni di regno. Ha rappresentato la comunità dei cittadini al di là dei partiti, non intervenendo nel dibattito politico che si dispiega liberamente senza mettere a repentaglio la forma dello stato. Che, infatti, resta una monarchia parlamentare, con un governo sorretto da una maggioranza costituita da parlamentari che, eletti in collegi uninominali, hanno la forza che deriva dal rapporto diretto con l’elettorato. Corona, Governo, Parlamento come pilastri dello stato liberale, secondo il pensiero del Barone di Montesquieu il quale proprio dal sistema costituzionale inglese aveva tratto elementi per formulare ne L’esprit des Lois la sua teoria della separazione dei poteri, base della democrazia.

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