di Salvatore Sfrecola
Le celebrazioni per il Giubileo dei 60 anni di regno della Regina Elisabetta II, all’indomani di quelle che, a Roma, hanno ricordato i 76 anni dalla nascita della Repubblica, consentono alcune riflessioni politico-istituzionali, al di là della coreografia dei due eventi, delle sfilate dei reparti militari, del concorso della gente. E qualche confronto. Anche con riguardo ai discorsi dei protagonisti. Da un lato, l’eloquio forbito di Mattarella, a volte ridondante, che attesta di una cultura politica e di una mentalità che vuol essere didascalica, a tratti moralistica, che lo porta ad intervenire quasi quotidianamente con riferimento ad eventi, non solamente politici ma anche culturali. Dall’altro, la prosa sobria della Regina, che parla al pubblico solamente in rari casi, senza fare riferimenti che possano anche solo sembrare politici, sempre per pochi minuti, per invitare i suoi concittadini ad avere fiducia soprattutto in sé stessi e nel futuro della Nazione. Come al tempo della pandemia da Covid-19, Elisabetta II ha richiamato tutti ad un impegno costante nell’interesse della comunità. Lo sguardo fermo, la voce sicura, nessuna inflessione dialettale che non si confà ad un Capo di Stato. È un tratto ricorrente dei regnanti inglesi. Sembra quasi di sentire il discorso del padre, Re Giorgio VI, il 3 settembre 1939, nell’annunciare l’ingresso in guerra contro la Germania di Hitler, un discorso celebre che ha richiamato l’orgoglio della nazione, la sua antica vocazione liberale e, pertanto, la necessità di combattere contro l’aggressore nazista che a breve avrebbe dato prova di straordinaria crudeltà sui campi di battaglia e in quelli “di concentramento” o “di sterminio”.
Due discorsi che attestano di un modo diverso di esercitare le funzioni di Capo dello Stato in ragione della diversa origine del potere e dello stesso ruolo costituzionale. Della Regina sappiamo, non solamente dalle interviste raccolte tra le migliaia di persone presenti alle celebrazioni, che incarna la storia e l’identità di un popolo, anzi di una comunità di popoli, il Commonwealth costituito da nazioni lontane che la riconoscono Regina perché condividono la storia e la cultura della madrepatria.
Sulle rive del Tamigi il sovrano fortemente rappresenta l’identità nazionale, non interviene nei fatti del governo e si tiene rigorosamente distante dalle espressioni della maggioranza del momento perché nel suo ruolo dialoga nell’interesse supremo del paese, anche con l’opposizione che, infatti, in quell’ordinamento ha un suo statuto. L’opposizione è veramente il sale del governo, della politica di chi siede a Downing Street. La Regina Consulta il capo dell’opposizione. A Londra il sovrano è effettivamente l’arbitro che assicura il buon funzionamento delle istituzioni. È istituzionalmente neutrale, non è un ex giocatore che sente, in qualche modo, di aver indossato la maglia di una delle squadre in campo. Del resto, il Barone di Montesquieu elaborò la sua teoria della “divisione dei poteri” nell’Esprit de Lois osservando quale ruolo a Londra avessero il Sovrano, il Governo e la Camera dei Comuni e come questo assetto costituzionale garantisse la democrazia liberale.
Del Presidente è scritto in Costituzione che “rappresenta l’unità nazionale” (art. 87), pudica espressione dei Costituenti che non avevano nel cuore le vicende del Risorgimento nazionale. Unità che è cosa diversa dall’identità, che significa identificarsi in una vicenda storica e culturale sviluppatasi nel corso dei secoli, che si riconosce nel territorio, nei tratti caratteristici di un ambiente fisico che fa dell’Italia il “bel Paese”. E nella sua lingua straordinaria.
Il Presidente della Repubblica italiana, come in tutte le repubbliche, è espressione di una parte politica, di una cultura politica che l’eletto ovviamente utilizzerà con molta attenzione per cercare di essere e comunque di apparire indipendente, veramente arbitro al di sopra delle parti. Ma non potrà esserlo del tutto, perché chi viene eletto Presidente con il concorso di varie forze politiche spesso al di là del partito di appartenenza è un uomo intriso di una storia politica, in ragione della quale si è contrapposto agli altri in Parlamento e nel Paese, per cui non si può pretendere che il Presidente dimentichi di essere l’uomo di una parte, nel senso migliore della parola. Una parte politica, naturalmente fatta di ideali e di aspettative.
La Regina Elisabetta è la sovrana di un popolo che da secoli ha scelto di essere governato da una maggioranza politica fortemente coesa, che nasce nelle urne di un sistema elettorale che privilegia il rapporto diretto tra il cittadino e il parlamentare. Alla Camera dei Comuni si è eletti prevalendo, anche di un solo voto, in collegi uninominali nei quali il candidato si è speso facendo conoscere le proprie idee ed i propri programmi, dando conto, se già eletto, di quel che ha fatto nel corso della legislatura. E va “porta a porta”, per cercare di convincere anche chi sa che non lo voterà. Perché questa è la democrazia rappresentativa.
In Italia i parlamentari, formalmente eletti, sono in realtà nominati perché la candidatura é prevista e presentata dai partiti che potrebbero fare eleggere, quando godono del consenso locale, chiunque, anche lontano dalla storia del partito. Ricorderanno tutti il caso di Antonio Di Pietro, uomo indubitabilmente di destra che il Partito Democratico ha fatto eleggere in un collegio del Mugello, area rossa per antonomasia.
Per riflettere.