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Referendum: hanno perduto tutti

di Salvatore Sfrecola

L’esito del referendum, scontato per la maggior parte degli osservatori, “una sconfitta annunciata”, come titola Massimo Franco sul Corriere della Sera del 13 giugno, è una sconfitta per tutti. Per coloro che lo hanno promosso immaginando un successo travolgente in ragione della notoria, gravissima perdita di fiducia dei cittadini nella Magistratura, giunta, secondo alcune rilevazioni, ad un misero 31%. Con molta improvvisazione, nel giudizio dell’Avv. Giandomenico Caiazza, Presidente dell’Unione delle Camere Penali, il quale, in una intervista al medesimo Corriere, lamenta che l’Unione non sia stata consultata sulla formulazione dei quesiti. Denuncia, inoltre, un certo disimpegno dei proponenti, in particolare della Lega, abbandonata perfino dai suoi stessi elettori, come si deduce dai voti dati dove si svolgevano anche elezioni comunali. Concludendo: “ora sarà più difficile discutere di questi temi. Questo atto politico avventato rischiamo di pagarlo carissimo”.

Infatti, il flop elettorale, come il risultato è stato definito sulla stampa, è una sconfitta per la politica nel suo complesso, che nessuna significativa riforma della Giustizia ha saputo portare a termine, e per gli italiani che attendono da anni la semplificazione delle procedure ai fini della riduzione dei tempi dei processi, che sono un costo per lo Stato e per i cittadini. E il ritardo nel decidere, sappiamo, è negazione dei diritti.

Possibilità di parziali riforme, che non accontenteranno certamente i promotori del referendum, saranno forse attuate sulla base delle iniziative del Ministro Cartabia, in discussione in Parlamento. Ma c’è da scommettere che i veri nodi della Giustizia non saranno sciolti. Né quelli che concernono la semplificazione dei processi né quelli che attengono alla responsabilità dei giudici, aspettativa di quanti hanno compreso sulla loro pelle l’inadeguatezza della normativa vigente che nessun serio ristoro assicura alle vittime di errori giudiziari. Il tema è centrale per restituire prestigio alla Giustizia e fiducia nei magistrati. Per il leghista Calderoli la bocciatura da parte della Consulta del quesito sulla responsabilità civile dei magistrati, “un tema che sarebbe stato fortemente attrattivo”, avrebbe trascinato l’elettorato. E questo illumina sullo spirito dell’iniziativa, non una serena proposta di modifica delle regole ma l’ossequio alle pulsioni della pancia di parte dell’elettorato in un Paese, è inutile nasconderlo, restio alle regole della legalità e quindi istintivamente ostile a chi quelle regole richiama e applica.

Ma quello della responsabilità dei magistrati è da affrontare con cautela perché l’errore che comporta un giusto ristoro in denaro, se non dovuto a dolo, non può essere addebitato al magistrato ma deve rientrare nel cosiddetto “rischio d’impresa” ed essere ristorato dallo Stato. Anche ad evitare che il giudice condizionato dal timore di essere chiamato a rispondere in proprio perda serenità e indipendenza.

Ancora, si è detto che è stata fatta poca pubblicità dei quesiti referendari, che mezzi di informazione pubblici hanno concorso in modo insufficiente alla conoscenza delle ragioni del SÌ e del NO. Ma io mi chiedo se l’onere di sostenere la campagna referendaria debba essere della TV pubblica o non sia compito dei promotori del referendum. È come pretendere che le ragioni di una candidatura in una elezione debbano essere presentate dall’informazione pubblica e non sostenute dallo stesso candidato.

Nei prossimi giorni si leggerà di tutto, quanto all’istituto referendario ed al merito dei quesiti. Contro l’astensione si evocherà la democrazia e il dovere di partecipare comunque alla consultazione. Si sono anche sentite voci contrarie al quorum previsto perché la consultazione sia valida o comunque all’attuale misura (50% + 1 degli aventi diritto al voto). Vorrei, in proposito, sgombrare il campo da alcuni equivoci ai quali ha dato spazio il dibattito sui mezzi d’informazione ed anche sui social. Il referendum abrogativo è uno strumento fondamentale di democrazia diretta ed ha lo scopo di eliminare dall’ordinamento una legge che i cittadini elettori non condividono. È una forma di controllo popolare delle decisioni del Parlamento. E questo spiega la ragione del quorum e la differenza tra la votazione referendaria e quelle dirette alla elezione di parlamentari, consiglieri regionali, sindaci e consiglieri comunali. E se è certamente possibile eleggere un candidato anche col 10% dei voti, non ha senso che con un medesimo numero venga abrogata una legge approvata dal Parlamento. Ci sarebbe sempre dietro l’angolo la possibilità di un colpo di mano di un gruppo organizzato, limitato ancorché capace di raccogliere le firme necessarie per indire un referendum.

Questa essendo la logica del sistema, è evidente che il cittadino chiamato a esprimere il suo giudizio sulla proposta di abrogazione di una legge può votare SÌ, può votare NO, ma può anche astenersi perché, in costanza di un quorum minimo, l’astensione è una forma di espressione del giudizio sulla proposta referendaria.

Detto questo e ribadito che la classe politica non ha tenuto conto della esigenza che i cittadini hanno di avere una giustizia rapida e efficiente, va anche detto che l’eventuale successo del referendum non avrebbe inciso sull’efficienza del sistema giustizia, che è quello che interessa i cittadini. Enrico Letta, Segretario del Partito Democratico, che si è schierato apertamente per il NO, si è detto convinto che “questi referendum pongano più problemi di quanti ne risolvano”. Problemi, quelli della Giustizia, che occorre risolvere con serenità senza caricarli di una eccessiva valenza politica di parte.

Invece coloro che si sono soffermati a considerare i quesiti si sono divisi nelle consuete schiere contrapposte tra “garantisti” e “manettari”, tanto per semplificare, che è poi quel tipo di dibattito che sembra costruito apposta per non risolvere i problemi

Da una parte, tra chi plaude al flop,Marco Travaglio ha scritto su il Fatto Quotidiano, che “ancora una volta il popolo italiano s’è rivelato molto più maturo della classe politica e intellettuale, seppellendo sotto una coltre di sprezzante indifferenza l’ennesimo tentativo di lorsignori di regalarsi l’impunità col plauso dei cittadini”. Sulla stessa lunghezza d’onda Armando Spataro che su La Stampa scrive: “si può tirare un sospiro di sollievo perché è stato evitato uno sfregio al Paese e al suo assetto costituzionale. La vittoria del “SÌ” avrebbe permesso che pregiudicati e condannati per gravi reati diventassero candidabili”. Di contro chi propendeva per il SÌ riteneva che dovesse essere il giudice a decidere, di volta in volta, se applicare la decadenza o l’incandidabilità.

Al termine di queste poche riflessioni, certamente incomplete considerata la vastità delle questioni che attengono alla Giustizia, rimane l’amarezza della constatazione che in un paese civile, che si vantava di essere la “Patria del Diritto” la classe politica non riesce a fermarsi un attimo per riflettere sul funzionamento dei tribunali e delle Corti, per assicurare ai cittadini quello che è uno dei primi doveri di uno stato, la sicurezza attraverso la repressione dei reati e il riconoscimento dei diritti del cittadino. La Giustizia non dovrebbe mai essere uno strumento di lotta fra i partiti. D’altra parte la Magistratura dovrebbe sentire il dovere di fare una proposta di revisione e di semplificazione delle norme sul processo, d’intesa con l’avvocatura. I giudici, in sostanza, devono sentire loro per primi l’esigenza di recupero di un prestigio progressivamente perduto per vari motivi.

Il rischio è che l’esito del referendum allontani ulteriormente il tempo delle riforme.

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