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Reminiscenze di colloqui del secolo scorso. Formazione, funzione e qualità del Giurista

Senza Libertà, nessuna Dignità;

 Senza Umiltà, nessuna Verità. 

Di Jacopo Severo Bartolomei 

A volte occasionalmente a volte volontariamente – annoverandomi con la presunzione dei ventenni tra la juventute cupidae legum, cui Giustiniano dedicò la celeberrima codificazione del diritto romano – son stato sovente spettatore attento di numerosi colloqui intercorsi tra Franco Bartolomei ed il Maestro Massimo Severo Giannini (1915-2000), che mio Padre ebbe a conoscere di persona nel 1962 all’atto della chiamata a ricoprire la cattedra di diritto amministrativo in facoltà giurisprudenza “sapientina”, e poi ebbe modo di frequentarlo diuturnamente, dal periodo di assistentato negli anni 60 a Roma sino alla scomparsa al debutto del terzo millennio.

Mio Padre me lo additava quale suo faro di riferimento, ben prima del mio approdo nelle aule dei giurisperiti, ed interlocutore costante da cui attingeva insegnamenti e impostazioni all’avanguardia nello studio del diritto amministrativo e non solo. Infatti Egli insegnò, oltre alla materia principe, scienza delle finanze, tecnica dell’amministrazione, diritto pubblico dell’economia, diritto costituzionale e anche teoria generale del diritto. 

Franco Bartolomei ha condiviso il percorso di Grandi cattedratici, quali appunto Massimo Severo Giannini e Aldo Sandulli, di tornare alla vigilia del collocamento fuori ruolo per anzianità, all’insegnamento del diritto costituzionale, come regresso alla fonte del diritto amministrativo e recupero dell’approccio iniziale con gli studenti, nella strenua convinzione dell’indissolubilità di tali discipline (cfr. MSG, Introduzione al diritto costituzionale, Bulzoni Roma 1984, appunti da lezioni; I pubblici poteri, Il Mulino Bologna 1986). 

Nell’arco di un ventennio, a margine di convegni, eventi accademici e commemorazioni (ad. es. incontro 1984 a dieci anni dall’operatività dei TT.AA,RR, la cui legge istitutiva Giannini aveva stigmatizzato come precipitato lacunoso di “infingardo legislatore”; incontro svoltosi nell’Aula, oggi intitolata al Maestro e contenente la biblioteca da lui donata alla facoltà capitolina), ho assistito a loro scambi di opinioni, a richieste di spunti e suggerimenti da parte paterna, non solo su questioni giuridiche specifiche, bensì pure su argomenti generali. Di tali colloqui mi son rimasti impressi specialmente quelli vertenti su formazione e funzione del Giurista, nel contesto socio-politico ed universitario di fine secolo scorso, dove la diffusione degli studi di massa aveva depresso il livello dei laureati in giurisprudenza dapprima e poi degli operatori giuridici, secondo la legge matematica della cd. “curva di Gauss” per cui allargandosi la base, la compromissione dell’eccellenza è tendenza inesorabile. 

Il Professore Giannini, studioso di fama internazionale, ha conservato integra la dedizione spassionata alla ricerca scientifica durante l’intero arco della sua vita accademica, dipanatasi per quasi 70 anni del novecento, tanto, ad esempio, da aver sempre declinato la nomina a Giudice costituzionale per esser libero di criticare le sentenze della Consulta, da fondatore-condirettore prestigiosa Rivista Giurisprudenza Costituzionale. Egli era profondamente convinto che nel bagaglio culturale dell’operatore del diritto prima e del giurista in senso stretto poi, dovessero necessariamente confluire una varietà disparata di interessi, stimoli e letture, specialmente afferenti all’ambito delle scienze storiche e sociali. Il Giurista secondo lui doveva sedere al desco della curiosità intellettuale e curare il costante aggiornamento del patrimonio professionale. 

Ricordo come sulla scia di simile insegnamento esperienziale del Maestro, mio Padre abbia rivolto particolare attenzione, tra le “nuove discipline”, alla sociologia del diritto, materia introdotta nei corsi universitari a fine anni ‘70-inizio ‘80, mutuandola dalla tradizione anglosassone; disciplina destinata dapprima ad affiancare e poi quasi a sostituire l’insegnamento canonico della filosofia del diritto, a mo’ di introduzione alla teoria generale del diritto, branca orientata a fornire risposta al quesito quid jus?, rispetto al quid juris?, secondo la nota dicotomia Kantiana. 

Della sociologia del diritto entrambi apprezzavano le elaborazioni dello struttural- funzionalismo sistemico di T. Parsons nonchè la dialettica nel dibattito culturale tra Jurgen Habermas, epigono della Scuola di Francoforte, e Niklas Luhmann; quel serrato dibattito sfociato nei confronti tenuti presso il Max Planck Institut e testimoniato da pubblicazione del libro a quattro mani “Teoria della società o tecnologia sociale” (Francoforte sul Meno, 1974). 

Luhmann iniziò ad insegnare a 41 anni all’Università di Bielefeld, e ricordo che quando è stato insignito di laurea ad honorem presso la facoltà di giurisprudenza dell’Università di Macerata, ove oltre ad essere professore ordinario di diritto amministrativo è stato Direttore del dipartimento interfacoltà di diritto pubblico, mio Padre venne designato – da A.Febbrajo, allievo italiano e primo traduttore del Tedesco – a tenere la prolusione, avendo non solo letto ma anche metabolizzato i suoi numerosi scritti. Nel variegato panorama della produzione del teutonico – che, include persino un saggio su nascita dell’Amore come passione, nella Francia di Luigi XIV – le opere di Luhmann ritenute più significative dal Giannini, rispettivamente quanto a contenuto e metodo, erano “ Sociologia del Diritto” (Bari, 1977) e “Illuminismo sociologico” (1983). 

Di Niklas Luhmann e del suo singolare percorso intellettuale, partito da esperienza di amministrazione attiva nei gangli dirigenziali del Land della Bassa Sassonia, entrambi sottolineavano l’intensa “prova su strada” e la proficuità della convinzione metodologica che la ricerca e l’archiviazione delle fonti rappresenta base prioritaria se non quasi preminente della produzione scientifica. 

Sotto questo profilo, l’alto magistero ed il costante esempio fornito in mezzo secolo dal Maestro Giannini, è illuminante: giovanissimo cattedratico sulla scia di Santi Romano e G. Zanobini, mai si è arroccato nella torre d’avorio della cittadella universitaria, ma dal 1946 è stato capo di gabinetto di Nenni, al Ministero per la Costituente, nel governo De Gasperi e poi dal 1979 Ministro della Funzione pubblica in Esecutivo Cossiga, inequivocabilmente testimoniando la vocazione del Giurista di “compromettersi” (“sporcarsi le mani” in senso sartriano) con l’esperienza sul campo, sia per misurare la bontà delle proprie soluzioni, inverando nel quotidiano le nozioni elaborate, che soprattutto per arricchire quel processo di critica e crescita della conoscenza (secondo il classico di filosofia della scienza-epistemologia di P.Feyerabend, T.Kuhn, K.R. Popper+altri, trad. Feltrinelli Milano 1976) a fondamento della società aperta e della dialettica della democrazia liberale. 

Per un Giurista di spessore, impattare con la realtà è indispensabile, sotto il profilo sia dell’impegno politico, che della dimensione politico-amministrativa, operando all’interno di quel “motore immobile” costituito dalla pubblica Amministrazione. E’ stato opinatamente ricordato, all’indomani della scomparsa, che Giannini «ha avuto una vita ricca e generosa, nella quale si sono sempre intrecciati uno straordinario lavoro scientifico, una inesauribile passione civile, uno sguardo distaccato e ironico sugli uomini e sul mondo, l’implacabilità del giudizio e l’attenzione per gli altri» ispirandosi direttamente al «modello del giurista come scienziato sociale» (S. Rodotà, Addio Giannini maestro delle riforme, in La Repubblica, 25 gennaio 2000). 

In tale fisionomia del Maestro Giannini, risiede pure il motivo per cui ebbe a spronare mio Padre, ad impegnarsi nella carica di Assessore all’urbanistica nel Comune di Grottammare, cittadina rivierasca nel territorio piceno, che di consulente dell’Assemblea legislativa della Regione Marche, in quanto per lui il Giurista era un ingegnere sociale, chiamato a coniugare l’applicazione delle norme alla disciplina dei rapporti intersoggettivi. Il Maestro aveva visto giusto pure in tali occasioni, perchè di quelle esperienze, cioè del breve ma intenso periodo di amministrazione attiva 1976- 77 e del lavoro da consulente, rimasero a mio Padre profonde esperienze, con duraturi frutti rappresentati dal volumetto intitolato “La commissione edilizia nell’ordinamento comunale”, vademecum per operatori degli enti locali, e dal decisivo contributo alla stesura della Legge urbanistica regionale 1992, insieme al recentissimamente scomparso Prof. Valerio Onida, Presidente emerito della Corte costituzionale. 

Una delle ultime volte che insieme incontrammo il Maestro, nel suo “secondo” studio in via del Pellegrino, a Roma, ebbe modo di ribadire il ruolo di assoluta centralità del Giurista per far funzionare l’assetto sociale, una “chiave di volta” di regolazione rapporti e di composizione conflitti, in un Paese occidentale a crescente complessità sociale ed interconnessione continentale. Egli si premurò, tuttavia, di aggiungere a siffatta definizione, una condizione essenziale, quella al cui avveramento i civilisti subordinano l’efficacia del contratto: “a patto che rimanga umile”. Registrai la chiusa, rimanendo un po’ disorientato, giacchè sin ad allora avevo sentito parlare di sottile arguzia ovvero della disincantata ironia, come doti tipiche del Giurista, ma giammai dell’humilitas . Lemma che letteralmente significa restare attaccati all’humus della terra; l’opposto di superbia e vanagloria (humilitas occidit superbiam, secondo il brocardo latino le cui iniziali alcuni intravvedono sul gladio del dipinto caravaggesco di “ Davide con la testa di Golia” risalente al1509). 

Mio Padre nel periodo 1993-2003, al tramonto della sua docenza universitaria, incappò in tristissima vicenda di malagiustizia nel contesto della stagione di Mani Pulite, per fatto attinente all’esercizio della libera professione. La vicenda sconvolse la sua vita, la salute psico-fisica, gli equilibri famiglieri e, last but not least, la passione per il Diritto, coltivata al seguito del Maestro sin dagli anni giovanili, ma non gli impedì di continuare a tener fede agli impegni accademici. Anche in tale doloroso frangente, non mancò di confrontarsi col Giannini, seguendo il suo consiglio di lasciarne testimonianza scritta, a futura memoria, della paradigmatica vicenda di giustizia ingiusta. Pure da tale incitamento, si rafforzò la dedizione paterna alla letteratura forense, con il varo di due romanzi giudiziari a sfondo autobiografico “L’Incarcerato di Montacuto”, Milano 1995, e “Magistrati del Malefizio”, Milano 2000, entrambi apparsi per i tipi editoriali di Spirali Vel. Infatti la speranza di riscatto passa esclusivamente attraverso la scrittura; scrivere è resistere, scrivere come ricompensa della sopportazione e dell’attraversamento della grande tribolazione, una necessità per darsi forza a continuare a vivere (Vivere per scrivere, secondo Varlam. T. Salamov, Visera,1998, trad.it con Prefazione di R. Saviano, Milano 2010). 

Son passati oltre 25 anni da quegli incontri e vicende, il Maestro Giannini è deceduto nel gennaio 2000 e Franco Bartolomei nel luglio 2005, gli scenari politico- costituzionali si sono incancreniti e il riordino delle istituzioni è carente, pure per il deficit di lucidi giuristi; il rapporto intercorso tra Giannini e Bartolomei, entrambi convinti che alla propria testimonianza morale si dovesse accompagnare il lascito permanente delle produzioni scientifiche, resta un proficuo esempio di scambio intellettuale e profondo rispetto umano. Soltanto ora, alle soglie dell’età tardoadulta, preludio di parabola discendente, il sottoscritto avverte di essere figlio moralmente di entrambi detti Giuristi novecenteschi, comprendendo la peculiarità di quegli informali colloqui e realizzando la fecondità del loro ricordo. 

Davvero per Franco Bartolomei il Giannini ha rappresentato Maestro di scienza e di vita, che la sorte, il destino o la provvidenza gli ha concesso di incontrare nella stagione delle albari speranze di rinnovamento della giovinezza. 

Docenza e discenza non sono risultate vane, se entrambi Maestro ed Allievo – a sua volta divenuto Giovane Maestro, sempre secondo locuzione gianniana – nei rispettivi ruoli e compiti hanno improntato la loro testimonianza a tale virtù: l’Umiltà da autentico Giurista, che resta sempre pronto all’ascolto di tutti ma irremovibile dall’affermare la verità, rectius il proprio angolo visuale di Verità, nella consapevolezza della storicità del fenomeno giuridico. 

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