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Tra cronaca e storia: i partiti riprendano il loro ruolo

di Salvatore Sfrecola

Non sembri sproporzionato il titolo nel momento in cui richiama la storia, cioè un periodo della vita politica nazionale che va al di là della cronaca delle dimissioni del Governo presieduto da Mario Draghi e dello scioglimento delle Camere, deciso dal Presidente della Repubblica che non ha individuato la possibilità di incaricare un nuovo Governo di completare la legislatura fino alla sua scadenza naturale, la prossima primavera.

La cronaca delle ore convulse della vigilia e dell’inutile passaggio parlamentare sulle comunicazioni del Presidente del Consiglio ha dato conto delle idee e dei programmi con i quali i partiti, per bocca dei dirigenti più significativi, hanno voluto marcare le differenze, per far comprendere all’elettorato che sono stati insieme in questo Esecutivo solamente per far fronte alle varie emergenze di natura sanitaria, economica e sociale, anche in ragione degli effetti del conflitto in corso in Ucraina, perché, se avessero potuto, avrebbero perseguito politiche diverse.

E qui si innesta quel riferimento alla storia che può sembrare azzardato, ma vuol significare che questa crisi viene da lontano, da quando i partiti non sono stati più in grado di designare alla Presidenza del Consiglio od a taluni dicasteri di particolare importanza, come l’Economia o l’interno, personalità capaci di svolgere le relative funzioni. Ricordiamo il governo presieduto da Carlo Azeglio Ciampi, poi da Lamberto Dini, entrambi provenienti dalla Banca d’Italia, poi da Mario Monti, ex Rettore della Bocconi, e da Giuseppe Conte, avvocato civilista, immediato predecessore di Mario Draghi, ex Banca d’Italia, ex Banca Centrale Europea, un’esperienza ministeriale quale Direttore Generale del Tesoro. Nel Governo, che rimane in carica per il disbrigo degli affari correnti, ruoli importanti di governo sono ricoperti da tecnici: al Ministero dell’interno Luciana Lamorgese, un ex prefetto, all’economia Daniele Franco, già direttore generale della Banca d’Italia, all’innovazione tecnologica Vittorio Colao, alla Giustizia Marta Cartabia, professore universitario, ex Presidente della Corte costituzionale, alla transizione ecologica Roberto Cingolani, alle infrastrutture Enrico Giovannini, all’Istruzione Patrizio Bianchi, all’università e alla ricerca Maria Cristina Messa.

Tutti “tecnici” di valore, certamente. Cos’è che non va, dunque? Non va che i partiti, i quali sono libere associazioni nate “per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”, come si esprime l’art. 49 della Costituzione, dovrebbero disporre, ai fini del perseguimento di quelle determinazioni politiche, di personalità capaci di delineare programmi e di realizzarli attraverso la partecipazione alle attività parlamentari e di governo.

In sostanza, è assurdo che quei partiti, assistiti dal consenso elettorale intorno ai loro programmi, una volta chiamati a realizzarli si affidino ad estranei alla loro classe dirigente. Non accade in nessuna parte del mondo che alla Presidenza del Consiglio, in funzione di direzione della “politica generale del Governo” e del mantenimento dell’“unità di indirizzo politico ed amministrativo, promuovendo e coordinando l’attività dei ministri” (art. 95, comma 1, Cost.), una attività propria della forza politica che ha vinto le elezioni, ci sia un estraneo ai partiti. Ugualmente, che al ministero dell’Interno sieda un ex funzionario; un banchiere all’economia e che manager con vaste esperienze in enti pubblici presiedano i ministeri più importanti.

È la prova che partiti che hanno concorso a formare il governo non dispongono di persone capaci di gestire settori vitali della vita nazionale, a cominciare dall’ordine pubblico, naturale funzione di mantenimento della sicurezza interna, un bene prezioso per i cittadini. Ugualmente per il sistema tributario, attraverso il quale si procede al governo dell’economia ed alla redistribuzione della ricchezza. Un partito non può non avere nei suoi ranghi una personalità che possa svolgere le funzioni di Ministro dell’interno o dell’economia e delle finanze.

Questi partiti, dunque, non hanno saputo formare una classe dirigente capace di esprimere idee e di saperle, all’occasione, concretamente realizzare. Cioè di gestire gli apparati ministeriali destinati a perseguire le politiche di settore. Naturalmente con il concorso dei tecnici dei ministeri, dipendenti pubblici “al servizio esclusivo della Nazione” (art. 98, comma 1, Cost.).

La storia insegna, infatti, che i partiti politici, nella tanto denigrata prima repubblica, disponevano di uffici per singole materie governative, presiedute da personalità che sulla stampa e nei dibattiti politici venivano indicati come “ministro ombra”, un riferimento per l’elettorato e per gli altri partiti nello specifico settore. Ad esempio era noto a tutti che Giorgio Napolitano, che diventerà Presidente della Repubblica, svolgeva il ruolo di “ministro degli esteri” del Partito Comunista Italiano ed in quella veste interveniva sui temi delle relazioni internazionali a nome del partito, che rappresentava anche all’estero.

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