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Alle urne, alle urne! Per rinnovare la politica

di Salvatore Sfrecola

Ieri sera, nel corso di Zona Bianca, la trasmissione condotta su La 4 da Giuseppe Brindisi, sono stati forniti i dati di varie rilevazioni condotte sulle intenzioni di voto, riferite alle coalizioni ed ai singoli partiti, in vista delle elezioni del 25 settembre. Ed anche ipotesi sulla percentuale di coloro che, ad oggi, avrebbero intenzione di non votare: il 27% degli elettori, il “partito” più forte.

Il dato è preoccupante per vari motivi, in gran parte e spesso analizzati. In primo luogo, come effetto di una diffusa disaffezione nei confronti della vita della comunità che trova la sua motivazione nella distanza che questi elettori sentono rispetto alla classe politica, accusata di essere lontana dalle esigenze della gente. È quanto si legge sui social quando qualcuno incita al voto, anche quando questa sollecitazione non è indirizzata ad un determinato partito.

È un fenomeno diffuso in occidente, si legge spesso. Ma questo non deve indurre a ritenere che l’assenteismo sia un fenomeno ineluttabile.

Ora è noto che l’articolo 48 della Costituzione, nel sancire il diritto di voto, ne stabilisce i caratteri, definendolo “personale, eguale, libero e segreto”, con la precisazione che “il suo esercizio è dovere civico”. Formula che ha definito un compromesso maturato nel corso dei lavori dell’Assemblea Costituente tra i fautori del voto obbligatorio e quelli del voto come dovere puramente morale. Sulle prime fu prevista anche una sanzione simbolica nei confronti dell’astensionista con l’apposizione sul certificato penale della attestazione “non ha votato”, che indusse Mario Vinciguerra, il quale non intendeva votare, a descrivere in un aureo libretto, “Il voto obbligatorio nel paese dei balocchi” (edito da Volpe nel 1966) i suoi vani tentativi di indurre il Procuratore della Repubblica a disporre quella pur simbolica sanzione. Quel magistrato aveva, giustamente, sempre qualcosa di meglio da fare.

Al di là delle riflessioni sulla natura del voto, alle quali hanno partecipato anche in questa occasione costituzionalisti e politologi, non c’è dubbio che una così estesa astensione sia effetto di un malessere profondo nella società nella quale i partecipanti – i cittadini-soci – ritengono inutile esprimere una scelta, nella convinzione che “tanto non cambia niente”, con un giudizio negativo nei confronti della classe politica, ritenuta insensibile alle esigenze autentiche della gente, e comunque composta da persone incapaci e dedite esclusivamente alla cura dei propri interessi.

Naturalmente anche se fosse vero, anzi proprio in ragione della ritenuta modestia della classe politica, sarebbe necessario votare per concorrere in qualche modo a cambiare le cose. Di più. Sarebbe necessario che i cittadini si facessero promotori di iniziative dirette a premere sui parlamentari e sui partiti perché le loro istanze fossero ascoltate. E se loro (i partiti ed i parlamentari) si ricordano di noi solamente alla vigilia del voto sarebbe bene che i cittadini facessero loro sentire il fiato sul collo nel corso del tempo, inducendoli ad affrontare i temi che la gente sente con proposte concrete.

Oggi su La Verità Marcello Veneziani indirizza una “lettera aperta” ad “un elettore che si asterrà perché tradito”. L’articolo è denso di considerazioni, anche con riferimento ai programmi politici e alla loro concreta realizzabilità. “Non si tratta di essere idealisti o cinici, votarsi alla testimonianza o alla carriera, scrive Veneziani. Il discorso è più complicato. Per cominciare c’è pure chi campa sugli idealisti, mette a profitto la voglia altrui di testimonianza e magari costruisce la propria carriera politica sulla dedizione e l’idealismo di chi li vota. Così come chi vuole incidere nella realtà e provare a governare e a cambiare quel che c’è da cambiare, può scegliere di farlo cancellando totalmente gli ideali da cui era partito e votarsi cinicamente al potere. O invece può tentare di calare gli ideali nella realtà, cercare di renderli compatibili, accettare un tasso di rinunce, cedimenti e compromessi per salvare però alcune posizioni considerate non negoziabili, i punti fermi.

C’è pure un’etica nei compromessi e un’etica del governare, ed è nel rapporto che si riesce a stabilire tra la realtà e le aspirazioni, tra le promesse e le realizzazioni, tra i valori e l’agire efficace”. Per concludere con un invito a non illudersi che in politica “anche cambiando continuamente vettori, passando di illusione in delusione, non arriverete mai a trovare il Leader o il Partito Ideale che vince le competizioni politiche va a governare mantenendo illibata alla sua purezza. I puri restano tali se perdono o non esercitano; vincendo e praticando perdono la purezza. Se tutto questo non vi piace, ripeto, state alla larga della politica. O se siete realisti, abbiate minimi contatti con la politica. Lo stretto necessario, poche aspettative e minime pretese”.

Convincerà questa prosa intrisa di realismo almeno alcuni di coloro che sono stati ricompresi in quel 27% che al momento non intende votare? Ne dubito. Chi ragionasse in termini di realismo politico avrebbe già deciso di votare pro o contro, come si fa in democrazia, nel senso che se non puoi scegliere chi ti piace, dà il voto a chi presumibilmente ostacolerà coloro che non ti piacciono.

E qui non c’è dubbio che una riflessione va fatta sulle regole del voto. Perché la disaffezione dei cittadini-elettori è, per buona parte, conseguenza della legge elettorale che limita solo ai collegi uninominali la scelta del candidato, una scelta condizionata, influenzata dal partito che lo presenta ma che comunque offre una certa libertà all’elettore che ha la possibilità di scegliere una persona concreta della quale apprezzare il programma elettorale e, in qualche misura, la personalità. O votare contro, come accennato. Così avviene laddove è storicamente accentuato il rapporto eletto-elettore, come nel sistema elettorale del Regno Unito, con l’effetto di rendere il parlamentare, forte del consenso che personalmente si è guadagnato, in qualche misura indipendente anche nei confronti del proprio partito. Nel senso che, come sentii dire da un parlamentare inglese, “il mio partito non mi cambierebbe mai collegio perché se lo facesse io mi candiderei ugualmente e sarei eletto”. In questi contesti, il potere dei partiti, passa dalle segreterie ai gruppi parlamentari, come dimostra la soluzione in vista per la crisi del governo Johnson che si concluderà con la designazione, da parte del partito di maggioranza, del nuovo primo ministro.

In un contesto elettorale “all’inglese” i partiti non si possono permettere di presentare uno qualunque, perché portatore di tessere e comunque nella manica del segretario politico. E pertanto “nominato”, anche se formalmente eletto. Per vincere, i partiti “devono” candidare chi sia capace di conquistare un collegio, il migliore a disposizione. E così la classe politica automaticamente si seleziona facendo emergere personalità che riscuotono un consenso autentico, destinato a consolidarsi nel tempo.

Nel bel Paese, invece, non solo si privilegia il proporzionale, l’unico sistema elettorale che consenta la sopravvivenza di micropartiti, la cui formazione, anzi, viene in qualche misura incentivata, ma si accentua il distacco eletto-elettore perché, in ragione della diminuzione dei seggi elettorali dovuta alla riforma costituzionale, i collegi sono diventati più vasti, si diceva a Zona Bianca di oltre un milione di elettori, con l’effetto che il candidato nei collegi uninominali è per l’elettorato un perfetto sconosciuto, che non è in condizione di andare a chiedere il voto “porta a porta”, come fa l’aspirante componente dell’inglese Camera dei Comuni di cui ho fatto cenno.

Il panorama è scoraggiante e – non nascondiamocelo – tale da motivare le ragioni dell’astensione. Ma non dobbiamo assolutamente gettare la spugna e il 25 settembre dobbiamo esercitare quel dovere civico nel quale si riconosce la dignità dei cittadini.

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