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Nella Repubblica di Giuseppe Conte chi sbaglia a danno della finanza pubblica non paga

di Salvatore Sfrecola

È stato rinfacciato di tutto a chi ha governato, anche solo per una parte della legislatura che si avvia a conclusione. Spesso con toni aggressivi, da rissa di cortile, anche con riferimento a vicende lontane nel tempo o personali, scendendo non di rado nell’insulto. Tuttavia, in questa campagna elettorale da scontro epocale, non ho sentito contestare all’avv. Giuseppe Conte di aver, da Presidente del Consiglio, inopinatamente esentato da ogni responsabilità chi, con “colpa grave”, ha causato danno erariale con conseguente addebito ai bilanci pubblici di spese inutili o eccessive.

Gli italiani che il 25 settembre deporranno una scheda nell’urna della loro sezione elettorale devono sapere che con decreto-legge n. 76 del 2020 alle Procure della Corte dei conti è stato impedito di perseguire chi ha causato pregiudizi alla finanza pubblica con azioni dissennate tali da integrare una grave trascuratezza, imperizia, noncuranza di regole legali o di buon senso. Questa colpa, che è qualificata “grave”, non è un semplice errore veniale, ma indica l’assenza di quel minimo di diligenza da parte di chi è tenuto ad un determinato adempimento da essere equiparata in diritto romano, per il profilo soggettivo, al dolo (culpa lata dolo æquiparàtur). Si tratta di quel grado massimo di negligenza che Ulpiano definiva “nìmia neglegentia, id est non intellègere quod òmnes intèllegunt”, straordinaria negligenza, cioè non capire ciò che tutti capiscono).

Ebbene, in questi casi, quando con colpa grave appunto sono state disposte, nel corso del tempo, spese per acquisto di beni o servizi da parte di responsabili di strutture pubbliche, è stato inibito al giudice della responsabilità amministrativa e contabile di chiederne conto e di obbligare a risarcirlo, secondo una regola antica e comune tanto al pubblico quanto al privato: chi sbaglia paga.

Non c’è stato verso di far comprendere al Presidente Conte la gravità di questa decisione inopinata, assunta con decreto legge, peraltro convertito con voto della sua maggioranza, che protegge coloro che, approfittando dell’urgenza della pandemia, hanno sperperato denaro pubblico, non solamente, peraltro, nel settore sanitario. O forse l’ha capito bene il Conte avvocato, incurante delle critiche che la stampa riservava a quella stagione, il tempo delle spese inutili, come l’acquisto dei banchi a rotelle lasciati, coperti di polvere, negli scantinati delle scuole per le quali erano stati acquistati con l’idea che fossero un mezzo per distanziare gli alunni nella aule e così contenere l’espansione del virus.

I difensori della norma l’hanno giustificata, nella condizione emergenziale della pandemia, col c.d. “timore della firma”, una condizione che sarebbe diffusa nelle pubbliche amministrazioni in ragione della preoccupazione dei funzionari di essere condannati al risarcimento del danno. Tesi singolare, che probabilmente nasconde altre verità, di certo la complessità della normativa applicata dai pubblici funzionari e un livello via via sempre più modesto di preparazione professionale, facilmente constatabile da chiunque abbia a che fare con gli uffici pubblici. Evidente anche nei tempi lunghi delle decisioni amministrative, da sempre criticati senza che il tema della semplificazione delle procedure sia concretamente affrontato per restituire all’amministrazione l’efficienza di un tempo.

E nessuno ricorda neppure, ad onor del vero, che l’efficacia nel tempo di quella norma è stata prorogata dal successore di Conte, il Presidente Mario Draghi che tante speranze aveva suscitato quando, presentando il suo governo alle Camere aveva richiamato l’esigenza di riforme vaste ed incisive e citato Camillo Benso di Cavour che di riforme amministrative ne aveva fatte tante, e significative, al momento della assunzione delle funzioni di Presidente del Consiglio del Regno di Sardegna, nel 1852, portando in Parlamento, come primo provvedimento, la riforma dell’amministrazione e della Contabilità dello Stato.

I giornali, per la verità, si sono occupati di sprechi vari, imputandoli a questo o a quel pubblico amministratore, del quale veniva anche indicata la “vicinanza” a politici con ruoli importanti nel Governo e nel Parlamento. Ma questo argomento non viene sviluppato in campagna elettorale anche se sarebbe utile strumento di polemica politica in una stagione nella quale gli italiani sono oberati dal peso delle bollette per la fornitura di energia elettrica e gas e tenuti al pagamento di imposte esose.

E viene il sospetto che, come quello degli evasori fiscali, esista anche il partito degli spreconi di denaro pubblico e che questo come quello sia trasversale, nel senso che per ambedue le fattispecie con effetti di danno per i bilanci pubblici ogni partito ne ha una parte e non ne trascura gli interessi.

Qualcuno vorrà smentirmi con i fatti e non a parole?

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