di Salvatore Sfrecola
Inevitabile, ad ogni elezione per il Senato e la Camera torna la polemica su candidature di magistrati. Li abbiamo trovati nelle liste di ogni partito. Taluni con un passato di funzioni giudicanti, altri provenienti dagli uffici delle Procure della Repubblica, personaggi per lo più noti al pubblico che legge i giornali e segue i TG perché interessati ad importanti processi o ad indagini che hanno destato l’attenzione dell’opinione pubblica. Quasi mai vicende giudiziarie su fatti di sangue. Anche se spesso fanno notizia aggressioni e regolamenti di conti tra elementi della criminalità, più o meno organizzata, ad interessare i partiti sono stati soprattutto magistrati che hanno curato processi in materia finanziaria o quanti hanno manifestato interpretazioni contestate della normativa vigente.
E così anche il 25 settembre troveremo sulle schede per l’elezione di Senato e Camera alcuni candidati che hanno rivestito la toga di magistrato. Mi riferisco a due candidati illustri per aver diretto importanti uffici giudiziari nei quali hanno fatto valere la loro esperienza e professionalità: Federico Cafiero De Raho, e Roberto Scarpinato, entrambi già in servizio presso la Procura antimafia, il primo come Capo della Procura Nazionale. Entrambi in pensione da alcuni mesi. Prima di loro hanno seguito la strada della politica Pietro Grasso e Franco Roberti, provenienti dallo stesso ruolo giudiziario.
Cafiero De Raho e Scarpinato, intervistati da alcuni giornali, hanno indicato il motivo per il quale hanno accettato la candidatura. Che vivono “con spirito di servizio”, come ha spiegato Cafiero De Raho adHuffPost. Aggiungendo a Repubblica, che “la politica vissuta con spirito di servizio è un modo per mettersi a disposizione del Paese, e in questo ritengo che possa, addirittura, ravvisarsi una continuità per chi, da magistrato, ha dedicato tutta la vita a lavorare per il Paese”.
Entrambi hanno precisato di essere stati indotti a candidarsi dallo scarso interesse per la lotta alla criminalità organizzata riscontrato nei programmi dei partiti, che, invece, ravvisano nel programma delMovimento 5 Stelle che li ha candidati. E comunque di considerarsi indipendenti anche rispetto al partito. Per Scarpinato, intervistato dal Fatto Quotidiano “una indipendenza che è garanzia che la funzione pubblica – magistrato ieri, forse parlamentare domani – viene esercitata nell’esclusivo interesse e al servizio dei cittadini”.
Non ho motivo di dubitarne per la persona e comunque mi sembra una regola che è doveroso rispettare nella vita pubblica. Né dubito della legittimità giuridica della scelta. Dubito, invece, da sempre, sull’opportunità di candidare magistrati, anche in pensione. E spiego perché. I magistrati sono cittadini come gli altri e quindi sarebbe certamente incostituzionale impedire loro di candidarsi. La Costituzione afferma all’art. 98, comma 3, che “si possono con legge stabilire limitazioni al diritto d’iscriversi ai partiti politici per i magistrati, i militari di carriera in servizio attivo, i funzionari ed agenti di polizia, i rappresentanti diplomatici e consolari all’estero”. La ratio della norma è evidente; indica al legislatore ordinario la difficile strada di coltivare l’equilibrio tra la garanzia del godimento dei diritti fondamentali del cittadino, tra i quali rientra quello di partecipazione all’attività politica, di accedere a cariche elettive e di manifestare liberamente il proprio pensiero, e l’esigenza di non ledere il buon andamento e il prestigio dell’istituzione cui il dipendente appartiene.
In particolare, per i magistrati l’indipendenza è solennemente proclamata dalla Costituzione agli artt. 101, comma 2 (“I giudici sono soggetti soltanto alla legge”), 104, comma 1 (“La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere”) e 107, comma 1 (“I magistrati sono inamovibili”).
Legittima, dunque, la candidatura, i miei dubbi riguardano l’opportunità, per la magistratura e per la persona. Il parlamentare, ancorché non abbia la tessera del partito che lo ha candidato, è comunque identificabile con una parte politica e la sua azione sarà sempre riguardata sotto la lente d’ingrandimento della politica da giornalisti e da osservatori delle vicende giudiziarie. I quali, alla prima occasione, andranno a ricercare tra le carte delle indagini e delle inchieste svolte dall’allora magistrato per individuare quali personaggi della politica vi fossero coinvolti. Con la conseguenza che, siccome a “pensar male” si fa solamente peccato, saranno inevitabili illazioni sulle scelte giudiziarie adottate. Sicché il cittadino potrebbe giungere alla conclusione, affrettata e sicuramente sbagliata ed ingiusta, che il magistrato nell’esercizio delle sue funzioni si sia predisposto relazioni tali da essere apprezzato dagli ambienti politici nell’ambito dei quali, sia pure a distanza di anni, è emersa la sua candidatura.
E qui il sospetto, del quale non abbiamo certo bisogno, in un dibattito politico-giornalistico che sempre più spesso assume i toni di una rissa da cortile, non di rado volgare. Con l’effetto di danneggiare l’immagine della persona e di ledere agli occhi del cittadino il ruolo del giudice “soggetto soltanto alla legge”. Del resto, questo collegamento tra l’attività svolta e i temi della politica è messo in rilievo proprio da Scarpinato, quando denuncia, con analisi assolutamente condivisibile, la degenerazione del potere, giunto ad “una fase regressiva dello stato democratico”, per cui “oggi, venuti meno i grandi progetti collettivi, la contesa politica reale rischia di regredire a competizione tra clan sociali, gruppi di interesse, ristrette oligarchie interessate solo a spartirsi le risorse collettive”. In una democrazia “sempre a rischio di involuzione autoritaria”, in una Repubblica “tenuta a battesimo da una strage politico mafiosa, quella di Portella della Ginestra che ha segnato l’incipit della strategia della tensione … una sequenza pressoché ininterrotta di stragi con finalità politiche…nonché una lunga serie di omicidi politici talora dissimulati sotto altre causali di copertura e come suicidi o incidenti”.
La conclusione è che “nel nostro paese la lotta politica si è svolta su un duplice livello. Al livello palese e legalitario delle competizioni elettorali, della dialettica parlamentare e istituzionale, delle manifestazioni di piazza, si è intrecciato il livello occulto di una lotta politica condotta dietro le quinte dalle componenti più retrive delle classi dirigenti da sempre tenacemente ostili alla Costituzione e che non hanno esitato a mettere in campo la violenza stragista, nonché l’alleanza con le mafie ed altri specialisti della violenza, per condizionare a proprio vantaggio il gioco politico e per sabotare l’evoluzione democratica del paese”. Con un seguito di “depistaggi posti in essere da apparati statali, con varie coperture politiche, finalizzati a coprire gli esecutori e impedire di individuare i mandanti e complici eccellenti”.
Un quadro sicuramente condivisibile che, tuttavia, impone una netta distinzione tra politica e Giustizia soprattutto se un ex magistrato, che evidentemente sa molte cose, denuncia che esponenti di ambienti politici “non hanno esitato a mettere in campo la violenza stragista, nonché l’alleanza con le mafie ed altri specialisti della violenza, per condizionare a proprio vantaggio il gioco politico e per sabotare l’evoluzione democratica del paese”. E se quelle vicende stanno scritte negli atti giudiziari, nelle richieste di rinvio a giudizio e nelle sentenze ancor più evidente è la necessità di una netta distinzione dei ruoli del magistrato e del politico.