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“Riformista” ma diseducativo: non sa la differenza fra reato e danno erariale

 di Salvatore Sfrecola

Il quotidiano diretto da Piero Sansonetti, un brillante giornalista che ci tiene molto a dirsi “garantista”, pubblica un articolo, a firma di Tiziana Maiolo, dal titolo, nello stile del giornale, provocatorio: “Il reato non c’è, La Corte dei conti se ne frega e condanna Oliverio”, 

Ora, in attesa di leggere la sentenza, che non conosco e che mi riservo di commentare, adottata dalla Sezione giurisdizionale della Corte dei conti per la Regione Calabria, quindi soggetta ad appello, intendo svolgere alcune considerazioni, a titolo informativo. Come avrebbe dovuto fare il giornale per chiarire la vicenda, senza gettare, con quel “se ne frega” a caratteri cubitali, discredito sulla Corte dei conti.

La Corte dei conti può anche aver sbagliato, ma “se ne frega” significa che i giudici contabili sarebbero stati tenuti a decidere secondo le conclusioni del tribunale penale, che ha ritenuto inesistente il reato di peculato, eppure le avrebbero ignorate. Come se una determinata condotta, nella specie la utilizzazione di denaro pubblico, non costituendo reato non potesse essere configurata come illecito contabile in caso di impropria destinazione dei relativi fondi. Infatti, integra il reato di peculato (art. 314 c.p.) la condotta del pubblico ufficiale che, “avendo per ragione del suo ufficio o servizio il possesso o comunque la disponibilità di danaro o di altra cosa mobile altrui, se ne appropria”.

Diversa è la condotta rilevante ai fini della giurisdizione della Corte dei conti in materia di danno erariale, condotta che consiste nella utilizzazione di denaro pubblico a fini non istituzionali. Per la Corte dei conti, infatti, a quanto scrive la Maiolo, il Presidente Mario Oliverio avrebbe arrecato un pregiudizio al bilancio della Regione Calabria per aver disposto la partecipazione della Regione al “Festival dei Due Mondi” di Spoleto per promuovere le bellezze turistiche del proprio territorio investendo nell’evento 95.000 euro.

In sostanza per i giudici la somma avrebbe costituito una personale promozione politica del Presidente della Regione e del suo partito per cui, caduta l’imputazione di peculato in assenza di una appropriazione del denaro, sarebbe residuato il danno erariale da rimborsare alla Regione >Calabria, in solido con un imprenditore e un dirigente regionale, per circa 90.000 euro, in quanto solo 4.500 euro sarebbero stati investiti per una finalità istituzionale, la valorizzazione del territorio.

Non è questa una difesa della sentenza che, ripeto, non conosco, sempre censurabile, ma del ruolo della Corte dei conti, la più antica magistratura dello Stato unitario, la prima ad essere unificata all’indomani della proclamazione del Regno d’Italia, a dimostrazione dell’importanza che i governanti italiani di allora riservavano alla disciplina ed al controllo dei conti. Basti pensare che il discorso inaugurale della Corte, il 1° ottobre 1862, a Torino, fu affidato al Ministro delle finanze Quintino Sella, notoriamente uomo di rigidissimi principi etici e politici.

Dire che una magistratura, nella specie la Corte dei conti, “se ne frega” significa indurre i lettori del giornale a disprezzare un’istituzione deputata a garantire la legalità nella gestione del denaro pubblico, quello che affluisce ai bilanci pubblici attraverso le imposte che pagano i cittadini. Diverso, se ci sono gli elementi, è criticare in fatto e in diritto una sentenza che, d’altra parte, è soggetta ad appello.

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