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Questo, codesto e quello, una regoletta trascurata

di Salvatore Sfrecola

L’avevo appreso alle elementari. Come sta scritto in tutti i vocabolari della lingua italiana (faccio riferimento al Treccani), si usa “questo” quando si vuole indicare cosa o persona vicina nello spazio o nel tempo a chi parla, o considerata comunque come tale nel discorso; più genericamente allude a cosa o a persona presente, attuale nel momento in cui si fa o avviene ciò di cui si parla (vol. III, tomo 2, 1247); “codesto” quando si indica persona o cosa vicina a colui a cui si parla, o a lui relativa, o nominata subito prima (vol. I, 809); “quello”, quando si indica cosa o persona lontana nello spazio o nel tempo da chi parla e da chi ascolta o che nel discorso è considerata come tale (Vol. III, tomo 2, 1244).

Sembra facile, intuitivo. Eppure, si legge molto spesso “codesto” al posto di “questo”. È, un po’ come il congiuntivo, un oggetto misterioso. Sempre più spesso, a dimostrazione di una grave carenza delle scuole, non solo elementari, ma anche nei successivi livelli di istruzione perché, anche chi legge le prove scritte degli studenti deve essere necessariamente incappato in qualche “orrore” (testuale, perché errore sarebbe poco) del genere lessicale e verbale. Parole trascinate nel tempo anche oltre gli studi, nelle professioni, cioè negli articoli di giornale, nelle comunicazioni, nelle relazioni, financo negli atti giudiziari. E così un amministratore di condominio scrive ad un mio amico per dare a lui notizia dell’orario di apertura di quelli che pomposamente qualifica “gli uffici di codesta amministrazione”, mentre avrebbe dovuto scrivere “i miei (o i nostri) uffici sono …”. O, comunque, “gli uffici di questa amministrazione”. Il mio amico non è stato in grado di dirmi se quell’amministratore è laureato ma, comunque, mi garantisce, che per svolgere quella funzione ed essere iscritti al relativo albo occorre almeno il diploma di istruzione superiore. Il che significa che ha studiato per almeno per 13 anni (cinque elementari, tre medie, cinque di superiori) senza che nessuno gli abbia insegnato la regoletta che abbiamo ricordato iniziando, o lo abbia corretto.

E questo conferma il grave arretramento degli studi, messo in evidenza qualche anno fa da una lettera con la quale seicento professori universitari avevano segnalato al Ministro dell’Istruzione che nelle tesi di laurea si riscontravano errori grammaticali non ammissibili in terza elementare. Del resto, recentemente i giornali hanno segnalato che, in un concorso per il reclutamento di magistrati, i commissari avevano rilevato negli elaborati inammissibili errori di grammatica e sintassi.

Questi episodi mi fanno ricordare un tempo, diverso ma neppure troppo lontano, nel quale l’istruzione era più severa e più adeguata all’esigenza di formare i futuri professionisti. Ricordo, al riguardo, che il mio professore di italiano al liceo “Torquato Tasso” di Roma, persona garbata che avrebbe successivamente ricoperto la cattedra universitaria di Storia della letteratura italiana, a conferma della sua elevata preparazione, era molto severo nella correzione dei temi, quelli che adesso si chiamano “testi scritti.

Si rivolgeva a noi con il “lei”, e un giorno, nel consegnarmi un tema che aveva corretto a casa, mi disse che avevo fatto degli “errori di forma”. La cosa mi lasciò un attimo perplesso. Poi mi spiegò che quegli errori di forma consistevano in due virgole, una, a suo giudizio, non necessaria, un’altra mancante. Poi aggiunse che considerava un errore che io avessi scritto “sopratutto” con una “t”. Gli feci osservare che il mio vocabolario prevedeva le due forme “sopratutto” e “soprattutto”. Precisò, come del resto diceva il vocabolario, che la forma più attuale è quella con due “t”. E di fronte ad una evidente mia difficoltà di convenire sulle sue osservazioni mi disse: “vede Sfrecola, se io non le faccio osservare queste cose non gliele farà osservare mai più nessuno”.

Voglio trarre lo spunto da “questo” esempio per avviare, sulla base della mia esperienza di studente, di padre e di nonno, alcune osservazioni su quello che io ritengo un progressivo degrado nell’insegnamento della lingua italiana, che continuo a ritenere fondamentale per qualunque cittadino di questo Paese, non solamente per i letterati e gli scrittori, ma per chiunque svolga una attività professionale. Ed approfitto della presenza nel Palazzo di viale Trastevere 76/A di un Ministro colto, come Giuseppe Valditara, ultimo successore di Francesco De Sanctis, il grande storico della letteratura italiana, ministro dell’istruzione nel primo governo dell’Italia unita, per sollecitarlo a richiamare i docenti ad un maggiore impegno nell’apprendimento della lingua italiana.

Perché è giusto il richiamo di alcuni, tra cui il Ministro della cultura, Gennaro Sangiuliano, all’esigenza di collocare il riferimento alla lingua nazionale nella Costituzione della Repubblica, com’era già scritto nello Statuto del Regno d’Italia a proposito della lingua degli atti parlamentari, ma, poi, occorre dare contenuto a quell’affermazione perché la lingua, parlata e scritta, sia curata a tutti i livelli.

Certamente non basterà una sollecitazione del Ministro agli insegnanti. Perché quello che lamentiamo è un problema evidente di formazione del corpo docente, che esige un impegno del Ministero nella selezione e nell’aggiornamento di coloro che insegnano, fin dalla scuola elementare che continuo a ritenere quella più importante, che dà un’impronta che per molti sarà definitiva e comunque fondamentale.

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