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Umberto II, il Re gentiluomo

18 marzo 1983-18 marzo 2023

Quarant’anni dalla morte di Re Umberto II

Prefazione

di Salvatore Sfrecola

Quarant’anni fa moriva Umberto di Savoia, l’ultimo Re d’Italia, tenuto lontano dalla Patria amata da una legge ingiusta che ne aveva decretato l’esilio, una pena dei secoli bui, che non gli è stata condonata, con straordinaria crudeltà, neppure alla vigilia della morte.

Non è accaduto in nessun altro paese civile: Re Simeone II di Bulgaria è tornato a Sofia, Re Michele di Romania a Bucarest, nella Francia della rivoluzione sono a Parigi da sempre gli Orleans, a Vienna gli Asburgo. Anche in Egitto la salma di Re Faruk riposa in un gigantesco mausoleo voluto da chi lo aveva detronizzato, il colonnello Nasser.

I sovrani sono la storia di una Nazione e come tali vanno riguardati anche da chi non crede nell’attualità del loro ruolo. 

La Repubblica italiana non consente al Re Vittorio Emanuele III, alla Regina Elena, dama “della carità”, al Re Umberto e alla Regina Maria José di riposare al Pantheon accanto a Vittorio Emanuele II, il “Padre della Patria”. Sì, perché quella è la giusta definizione del Sovrano di casa Savoia che, come il padre Carlo Alberto, ha messo in gioco le sorti del regno e della Dinastia più antica d’Europa per promuovere la causa dell’unità d’Italia. È la realtà, come ancora non ci è stata spiegata, al di là della esaltazione della storiografia del Risorgimento. Perché è incontestabile che, dando il tricolore d’Italia alle truppe piemontesi che varcavano il confine del Regno per combattere al fianco dei milanesi insorti contro il governo austriaco, Carlo Alberto di Savoia ha messo in gioco il suo Regno sfidando, con un piccolo esercito, le armate imperiali bene armate e guidate dal maresciallo Radetzky un mito della storia militare austriaca. 

Non solo, da allora, e negli anni successivi, il Piemonte ha ospitato tutti i liberali esuli dai vari stati (sette) con i quali il Congresso di Vienna aveva ridisegnato la geografia politica dell’Italia del dopo Napoleone. È lì, a Torino, che con il concorso di uomini di pensiero e d’armi si è formata la classe dirigente che avrebbe governato negli anni successivi lo stato unitario, che si sarebbe completato con l’annessione di Trento e Trieste, al termine della Prima Guerra Mondiale. 

La storia pesa nella vita di una comunità, ne definisce l’identità, dà senso al presente, delinea il futuro.

Ad Umberto II gli italiani di oggi devono molto, soprattutto perché il Re gentiluomo, giunto al referendum del 2 giugno 1946 tra mille difficoltà amplificate dai partiti repubblicani saldamente assisti al governo, ha voluto evitare di inasprire il confronto paventando il rischio di una guerra civile (la Monarchia aveva comunque riscosso il consenso della metà degli italiani), perché come il Re ha ripetutamente detto più volte, se la Repubblica può vivere con un 51% la Monarchia ha ragione di essere solo se ne condividono il ruolo la maggior parte dei cittadini. 

Comunque sia andata la vicenda referendaria il Re non doveva essere esiliato a vita, se non perché i detentori del potere repubblicano erano incerti sull’effettivo grado di consenso maturato in favore della Repubblica. In ogni caso al Sovrano morente doveva essere consentito di morire in Patria, come aveva chiesto. Averlo vietato è stato un gesto crudele e vile, certamente non condiviso dalla maggior parte degli italiani, di qualunque idea politica. Quegli italiani che, fin dalla Roma repubblicana, hanno sempre posto rispetto alla persona, alla “pietas”, un sentimento che sottolinea il grado di civiltà del nostro popolo.

Ebbene, per ricordare Re Umberto II, pur riservandoci di tornare sulla sua personalità politica e umana, alla quale, con un gruppo di amici, abbiamo dedicato un libro, oggi “Un Sogno Italiano” presenta due contributi, uno scritto “a caldo” dal Preside Professor Michele D’Elia, pubblicato sul fascicolo numero 1 della rivista “Nuove Sintesi”, della quale il Professor D’Elia è direttore, che, da allora scrive di storia dell’Italia e degli Italiani. L’altro, del Dottor Gianluigi Chiaserotti, a lungo impegnato nel circolo Rex che negli anni ha tenuto viva l’attenzione per l’istituzione monarchica, nella storia politica e istituzionale del nostro Paese e per le personalità di Casa Savoia.

Buona lettura!

Per un Re – Umberto II

di Michele D’Elia

(da Nuove Sintesi Anno I n. 1, aprile 1983)

Certi giornali di regime, che non potevano ignorare la morte di Umberto di Savoia, per l’ondata di interesse spontaneo, che si è levata dal popolo, hanno scritto tutto su di Lui, a patto che fossero considerazioni meschine e negative: dalla frivolezza galante al sospetto di omosessualità artificiosamente propalata dai repubblicani di Salò ed al suo essere “straniero”. Gli uomini politici, sempre di regime, salvo poche e sincere eccezioni liberali, hanno recitato la parte contrita di chi si è dovuto arrendere alle lungaggini procedurali e burocratiche sulla questione del rientro in Italia, mentre proprio essi, con volute diatribe, sono i responsabili del ritardo inammissibile. E, comunque, per pensarci avevano avuto trentasette anni d’esilio. La Repubblica ha così perso un’altra occasione per dimostrare la sua pretesa superiorità.

Non conobbi di persona Re Umberto. Tuttavia, Egli fu presente direttamente nella mia vita due volte: come mio testimone di nozze per delega all’avvocato Sodano e quando mi fece cavaliere della corona, su proposta di un comune amico, militante socialista. Ma la sua vera dimensione mi sfuggiva: non volendo intrupparmi nei numerosi gruppi di Italiani che andavano a trovarlo in Portogallo, né potendo permettermi di andarci da solo per i soliti motivi economici, rimandai sempre quel viaggio che avrebbe dovuto avere un significato politico e non di semplice saluto. Ora che il Re è morto e ha donato allo Stato repubblicano tutto quanto poteva ed alla Chiesa la Sacra Sindone, intuisco la sua dimensione storica e giustifico i giornalisti che nelle pieghe della sua vita hanno voluto trovare solo appigli per dirne male: il suo distacco dalla polemica e dalla miseria che investe tutti i giorni gli uomini, era tale da non consentire altro che parlarne male. E’ più semplice e non si rischia di passare per servi di corte. Inoltre è meno faticoso, perché non ci sono ricerche storiche da fare sul personaggio.

Si affollano, allora, nella mente di un monarchico giovane i pensieri più disparati e all’apparenza insignificanti: dalla cartolina del Re alle polemiche nell’U.M.I. alle cariche della polizia durante le nostre manifestazioni, di anni ormai lontani, in cui in piazza sventolavamo la Bianca Croce.

Non ci sono libri che insegnino a fare il Re, come non ce ne sono che insegnino, più modestamente, a fare il dirigente statale, o il capo di un’azienda o il capo di un partito, ma il principio dev’essere lo stesso: il continuo sacrificio del proprio io e dei propri sentimenti perché gli altri che dal capo aspettano qualcosa stiano sempre meglio. Ma, se nella gerarchia comune è concesso a tutti di rivolgersi a chi sta più in alto e su questi far ricadere anche colpe non sue, il Re non può e non deve parlare con nessuno, Egli si carica delle colpe di tutti. Ai Savoia si può rimproverare tutto; meno che non abbiano saputo fare il Re, quando è stato necessario. Per questo Umberto non fece mai distinzione tra monarchici e repubblicani: quelli con cui parlava erano italiani e basta; e la scelta del partito era affare loro. Non così per i Presidenti di Repubblica, che proprio dai partiti traggono i voti per l’elezione e quindi non hanno in sé il fondamento della suprema Magistratura dello Stato.

Umberto fu vicino ai giovani sin da quando, Luogotenente del Re, aprì il Quirinale ai piccoli mutilati di guerra, agli sfollati, ai reduci dal fronte e mi raccontano che anche nei suoi incontri di Cascais preferiva far aspettare i dignitari e gli anziani, piuttosto che i ragazzi.

Ai dolori familiari si aggiunsero per lunghi anni quelli causati dai monarchici, che proprio quando la Nazione li premiava con milioni di voti, si divisero e chiesero al Re un’investitura, che Egli rifiutò di concedere, perché assurda. Vennero così la scissione di Lauro e Covelli e la nascita di gruppetti sempre più squalificati politicamente, che del nome dei Savoia si servono senza servirlo.

Accusato ora di non aver contrastato il verdetto del 2 giugno, ora di aver lanciato al Paese un messaggio troppo polemico, Umberto troncò la rissa partendo per l’esilio, rendendo all’Italia ed alla stessa Repubblica un servigio di cui non si è ancora capita la profondità e la grandezza e di cui si tace opportunamente dovunque, poiché a nessuno conviene dire che questa seconda “fuga” evitò la guerra civile. E’ questo, appunto, un altro aspetto della regale dimensione, che sfugge anche alle analisi più obiettive e approfondite.

Noi monarchici democratici crediamo che Egli abbia fatto bene a partire per l’esilio anche in presenza di risultati elettorali quanto mai incerti e discutibili, se non per le manipolazioni difficili da smentire, quanto per il momento in cui fu chiesto al popolo di pronunciarsi, come riconosce lo stesso Romita, nel suo libro “Dalla Monarchia alla Repubblica”. La vittoria risicata della Repubblica è una macchia per questa non per la Monarchia.

Umberto ha consegnato agli Italiani un capitale di onestà e lealtà al quale potranno sempre ispirarsi nelle loro azioni solenni, come in quelle quotidiane.

Oggi è certo un fatto: la statura morale del Re, cui forse non fu dato di spiegarsi completamente negli anni della luogotenenza e nel solo mese di regno, si è rivelata nella sua completezza durante trentasette anni di esilio, nei quali Egli fu Custode dello Statuto e Sovrano al servizio del Popolo, che Lo ha ricambiato con un attaccamento tale da superare le menzogne e la propaganda di regime, ciò che anche i più arrabbiati nemici della Monarchia hanno dovuto riconoscere.

Il comunista Antonello Trombadori ha così commentato la morte di Umberto: “Pace all’anima sua: adesso siamo sollevati dal problema”. Ecco: la Repubblica ha regalato all’Italia, culla del diritto e della civiltà, una di quelle frasi e di quelle azioni che in un attimo cancellano tremila anni di storia, invidiata da tutto il mondo. Noi crediamo che i più sinceri repubblicani se ne dolgano quanto noi, che senza mezzi ci batteremo sino a quando tutti i Savoia non saranno tornati in Italia, con la pienezza dei loro diritti civili, che non si negano nemmeno agli assassini pentiti. Ma il Re non può pentirsi di essere Re, perché dovrebbe pentirsi di essere Uomo.

Il principe non fa le rivoluzioni, ma se ne mette a capo quando queste, in atto, aprano al popolo nuovi orizzonti di democrazia e progresso. Umberto lo capì e negli anni più duri della guerra e del referendum seguì con attenzione quelle forze politiche che al nuovo si ispiravano; ma non rinnegò la tradizione, che lungi dall’essere qualcosa di pietrificato e stucchevole, come vorrebbero certe mummie monarchiche, è la linfa che innerva di sé il futuro.

Chi accusò, ieri come oggi, il Figlio di non essersi ribellato al Padre e di avere con Lui preso la strada di Pescara, non vuole capire che “La lunga teoria di berline nere portava con sé la continuità dello Stato”, come ha riconosciuto lealmente il Ragionieri storico marxista, nella Storia d’Italia edita da Einaudi. Il resto sono sciocchezze di cui la Storia farà giustizia.

E’ stato scritto da chi monarchico non è: ”Nessuna dinastia, neanche quella degli Hoenzollern, ha avuto un epigono che all’impegno di onorarne il nome e il ricordo abbia saputo fare tanto sacrificio della propria vita, e con piena coscienza della sua assoluta inutilità”. Speriamo che almeno i monarchici sappiano trarne insegnamento. Non possiamo dire che Re sarebbe stato Umberto, ma, da come è vissuto e da come è morto, possiamo immaginarlo.

Il 7 dicembre 1943, un piccolo e disarmato aereo da ricognizione volò senza scorta sulle posizioni tedesche di Montelungo, riportandone preziosi dati per gli imminenti attacchi delle nostre truppe, che di lì a poco avrebbero conquistata la posizione; lo pilotava Umberto con un coraggio e una umiltà barattati per paura. Negli anni della pace, Egli inviava sempre un messaggio ai superstiti di quella battaglia. Ma il suo pensiero andava sempre ai Caduti. Adesso li ha raggiunti e con loro starà molto meglio che con i vivi. Come il Padre, che amò, più di ogni altro abito, la dimessa uniforme dei fanti.

Ricordo del Re Umberto II di Savoia

di Gianluigi Chiaserotti 

Erano le 15,35 del 18 marzo 1983, quaranta anni or sono, che il Grande Re Umberto II di Savoia ci lasciava. 

Ma il piacere più grande è quello di ricordarlo, in questa occasione, in cui mi limiterò a tratteggiare, a grandi linee, e con ricordi personali, la Sua vita di Italiano e di Re. 

Nato nel Castello di Racconigi giovedì 15 settembre 1904, l’allora Principe Ereditario venne al mondo in silenzio, come in silenzio è stata la sua vita di italiano e di Re; in silenzio, dicevo, in quanto era in corso uno sciopero generale e proprio per questo i giornali non furono stampati. Però il lieto evento giunse alle orecchie del Sindaco di Milano, il quale volle esporre il Tricolore Sabaudo al balcone del Palazzo Municipale.

Il Principe di Piemonte, titolo che Gli spettava, ebbe un’infanzia ed un’adolescenza caratterizzate essenzialmente dalla rigida educazione militare impartitagli dall’Ammiraglio Attilio Bonaldi. Per cui sveglia all’alba, esercitazioni varie, equitazione, ginnastica. Molti avversari della Monarchia, inutili e superficiali, hanno criticato questo; senza però pensare che era necessario, in quanto il Principe sarebbe dovuto divenire il Sovrano di una Nazione invidiata e nobile come era la nostra. Terminata la preparazione c. d. bonaldiana, Umberto andò in Ginnasio e poscia al Collegio Militare di Palazzo Salviati in Roma, nel quale frequentava le lezioni a carattere scientifico, mentre gli studi classici li preparava privatamente. Terminato il Liceo si iscrisse alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Padova, laureandovisi nel novembre 1925, e divenendo, contemporaneamente, Tenente della Accademia Militare di Modena.

Dopo gli anni spensierati della giovinezza, trascorsi soprattutto a Torino, giunse il momento in cui prevalse la Ragion di Stato poiché Umberto doveva assicurare la continuità della Dinastia; per cui nel giorno del cinquantasettesimo genetliaco della Regina Elena (1873-1952), il giorno 8 gennaio 1930, sposò la bellissima Principessa Reale di Sassonia Coburgo Gotha, Maria Josè del Belgio (1906-2001), figlia del Re Alberto I.

Siamo così giunti alla parte del ricordo sul Re Umberto II in cui è chiamato a reggere le sorti dello Stato. Con l’armistizio di Cassibile del 4 settembre 1943, il giorno 8, Re e Governo si trasferirono a Pescara (ho detto “si trasferirono” e non “fuggirono”, come qualcuno vorrebbe). Codesto è stato un grande atto di lungimiranza del Re Vittorio Emanuele III (1869-1947), il quale sapeva che se non fosse giunto a ciò, non avrebbe assicurato la continuità dello Stato. Dopo un periodo di governo al Sud, Vittorio Emanuele, alla liberazione di Roma — cioè il 5 giugno 1944 —, nominò Umberto, Luogotenente Generale del Regno. Con questa veste Egli attuò bene la Sua ottima preparazione a divenire Re, che giunse il 9 maggio 1946, a circa un mese dalla data in cui si era stabilito di svolgere il “referendum” istituzionale, cioè il 2 giugno; “referendum” che il Re e, ribadiamo, solo il Re indisse con Decreto Legislativo Luogotenziale 16 marzo 1946, N. 98; ed ecco cosa, tra l’altro, disse Umberto, a Genova, nel Suo proclama del 31 maggio 1946, e, soprattutto, scevro da ogni interesse dinastico:

“(…) appena la Costituente avrà assolto il suo compito possa essere ancora una volta sottoposta agli italiani — nella forma che la rappresentanza popolare volesse proporre — la domanda cui siete chiamati a rispondere il 2 giugno.”

Dalle urne invece, purtroppo, uscì l’imbroglio e la truffa. Il 4 giugno aveva vinto la Monarchia; il 5 giugno mattina la Repubblica. La notte portò “consiglio”. Uscì, sempre dalle urne, il modo non corretto di calcolare le maggioranze e così via (fatti tutti documentati anche da libri di testo scolastici stranieri). Anche la Cassazione non si portò come avrebbe dovuto in quanto non poteva che omologare risultati, e quindi non proclamò nessuna nascita della Repubblica.

Nel suo ultimo proclama Umberto dice:

“(…) confido che la Magistratura, le cui tradizioni di indipendenza e di libertà sono una delle glorie d’Italia, potrà dire la sua libera parola;”.

Purtroppo nella notte tra il 12 e il 13 giugno, compiuto, da parte del Governo, un vero e proprio “colpo di Stato” (tacitamente ammesso anche dalla Gazzetta Ufficiale del 1° luglio 1946, N. 144), alle ore 16 del 13 giugno il Re Umberto di Savoia lasciava la Sua Patria, ed alla radio fu letto il proclama di protesta, che, tra l’altro, dice:

“(…) Improvvisamente questa notte, in spregio alle leggi ed

al potere indipendente e sovrano della Magistratura, il Governo ha compiuto un gesto rivoluzionario assumendo, con atto unilaterale ed arbitrario poteri che non gli spettano e mi ha posto nell’alternativa di provocare spargimento di sangue o di subire violenza.”.

Il Re, non abdicatario (se lo avesse fatto avrebbe dovuto riconoscere il sopruso di cui era stato fatto bersaglio), lasciando la Patria si sacrificò per il bene della medesima. Ma, pur protestando, sciolse dal giuramento di fedeltà quanti lo avevano prestato ma “non da quello verso la Patria”.

Ed eccoci all’esilio, allora (ed ora non più, come vedremo tra poco) sancito dalla XIII Disposizione Transitoria e Finale della Costituzione della Repubblica italiana, la quale condannava lui ed i nascituri a questa inumana e mediovale pena. In questo doloroso periodo della sua vita il Re, dalla villa portoghese, ha voluto essere sempre presente nelle vicissitudini, liete e tristi, dell’amata e lontana Patria, rimanendo fedele, naturalmente, alle scelte di principio. Presente nei suoi tradizionali messaggi di fine d’anno, nei quali ha sempre messo in risalto l’importanza della pace, della giustizia sociale e dell’unità.

E’ bello e doveroso qui ricordare che, nell’occasione del Centenario dell’Unità d’Italia – il 17 marzo 1961 – Re Umberto sia stato più presente di chiunque altro. Infatti alla solenne assise della Consulta dei Senatori del Regno convocata, per l’occasione, in Torino fu letto il suo messaggio, che tra l’altro recita:

(…) L’epica impresa poté grado a grado raggiungere l’altissimo fine,

 perché il Re Vittorio Emanuele II, con a fianco Camillo di Cavour,

 aveva assunto con mano ferma la direzione

 e la responsabilità del moto nazionale,

coraggiosamente superando difficoltà di ogni genere.

Attorno ad essi sorsero da ogni parte d’Italia

 – magnifico prodigio –

 falangi di patrioti, sempre tutti presenti nei nostri grati cuori.

L’apostolato di Mazzini e l’eroismo di Garibaldi integrarono l’opera meravigliosa, risultato di forze confluenti e contrastanti, fuse nella sintesi della Monarchia nazionale. Discordie e rancori di partiti furono arsi dal sentimento religioso della Patria: così sorse il Regno d’Italia. (…)”.

Il Re concesse poi onorificenze sabaude ad illustri personalità e si fece rappresentare dal Duca di Bergamo, Adalberto di Savoia-Genova (1898-1982) in Teano, per lo storico incontro tra il Re Vittorio Emanuele II (1820-1878) ed il generale Giuseppe Garibaldi (1807-1882).

Ma oltre a queste presenze storiche, Egli fu presente, e con aiuti cospicui, in occasione di tutte le tragiche calamità naturali che hanno colpito la nostra Terra: la sciagura del Vajont del 1963; i numerosi terremoti (Valle del Belice del 1968; Friuli del 1976; Irpinia del 1980; frana di Ancona del 1982). Fu presente anche con le famiglie di attentati terroristici, mafiosi e con le vittime di rapimenti. La Sua costante presenza fu anche graditissima fra i campioni dello sport italiani, succedutisi ed affermatisi nei lunghi anni di esilio. Ma riteniamo che la presenza più bella, più significativa era quella per gli italiani che si recavano a trovarLo in Cascais, e che riceveva con nessuna formalità od etichetta.

Memorabile fu l’incontro con il Sovrano a Beaulieu sur Mer del 4 giugno 1978, occasione nella quale chi scrive, neanche diciottenne, ebbe l’onore di conoscere e salutare il Re d’Italia, Umberto II di Savoia.

La proposta di legge costituzionale per l’abrogazione dell’esilio portava la data del 10 marzo 1981. Proposta che si è iniziata a discutere in aula – dopo che era stata ferma 140 giorni in commissione, solo il giorno 8 marzo 1983, e ciò quando il Re era grave nell’Ospedale Cantonale di Ginevra, e, purtroppo, si aspettava il peggio. Durante questa, oseremmo dire, “presa in giro”, ci fu la gara tra i nostri politici, tranne isolati casi, riguardo alla faziosità ed al riportare notizie false e tendenziose sulla vita del Re e su Casa Savoia.

Chi lo avrebbe detto che avremmo dovuto attendere ancora diciannove anni, e ciò fino al 10 novembre 2002, per assistere – finalmente – all’”esaurimento”, come recita letteralmente la legge costituzionale 23 ottobre 2002, N. 1, degli effetti dei commi primo e secondo della XIII Disposizione Transitoria e Finale della Costituzione. 

Quindi, il 18 marzo 1983, il Re Umberto ci ha lasciati, e ci ha lasciati lucido, con – sulle labbra – la parola che più amava, che più sentiva, che è stata la ragione di tutta una vita: “Italia”.

 I solenni funerali si celebrarono, alla impressionante presenza di tantissimi italiani, nell’Abbazia di Hautecombe, ove il Re, secondo le Sue ultime volontà, volle esservi sepolto provvisoriamente, se fosse deceduto lontano da Cascais, in attesa, naturalmente, della sepoltura nel Pantheon di Roma.

Nell’epilogo desidero riportare tre significativi pensieri del Re: 

“Chi affronta la responsabilità, le preoccupazioni, gli oneri, i disagi e talora i rischi della democratica lotta per il ritorno della Monarchia, dà esempio della dote più bella e più alta dell’Uomo: la fede che vuol dire certezza”;

“La repubblica è un regime estraneo alle tradizioni nazionali, imposto”

badate bene dice “imposto

in un momento di generale turbamento”.

Il terzo, scoperto solo il 22 marzo 1983 – a quattro giorni dalla scomparsa – nel Suo scrittoio di Cascais:

“(…) poco importa a me d’esser giudicato da un tribunale di uomini… nè mi giudico da me stesso poiché non ho coscienza di aver commesso alcunché; ma non per questo sono giustificato: mio Giudice è il Signore”.

“Io mi avanzo pieno di speranza alle Tue soglie del Tuo divino Santuario la cui fulgida luce ravvisai sul sentiero misurato dai miei passi mortali.

Alla Tua chiamata, o Signore, io vengo tranquillo”.

Ecco quella fede, quella speranza, nonché quella religiosità che hanno caratterizzato tutta la Sua vita e che Gli hanno dato la forza di sperare nel futuro.

Quindi quei politici che negarono al Re (nel 1983), dopo 37 anni di esilio – anche con un permesso straordinario – il sacrosanto rientro ed il Suo desiderio di morire in Italia, credevano di aver vinto. 

Umberto di Savoia, riposando nella quiete e nella religiosità della Abbazia di Hautecombe, in quella Savoia, ove mille anni fa Umberto Biancamano fu il Capostipite della Dinastia – in attesa della giusta sepoltura nel Pantheon di Roma – è, e di gran lunga, il vincitore in Signorilità, in Fede ed in Amor di Patria.

Così è, così Lo ricordiamo e così Lo benediremo.

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