di Salvatore Sfrecola
Alcuni furono portati alle Fosse Ardeatine da via Tasso, la famigerata prigione della Gestapo, come il Colonnello Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, Comandante del Fronte Militare Clandestino (FMC) composto da ufficiali, sottufficiali e soldati (e soprattutto Carabinieri), come lui rimasti fedeli al giuramento al Re, con il compito di organizzare e coordinare le formazioni partigiane romane con diramazioni in tutta Italia, o come il Maggiore dei Carabinieri Ugo de Carolis, Capo di Stato Maggiore del FMC. A via Tasso furono torturati, ma non dissero nulla.
Altri erano cittadini catturati dai tedeschi perché elementi della Resistenza o sospettati di esserlo, prelevati da Regina Coeli. Italiani tutti, cristiani ed ebrei, uccisi con un colpo alla nuca nelle Cave ardeatine. Italiani coinvolti in una tragedia immane, come poche nella storia di questo Paese, vittime della rappresaglia nazista, preannunciata e portata a termine con crudele determinazione.
Si è detto e scritto molto dell’episodio che l’ha determinata, l’attentato di via Rasella, una strada al centro di Roma, parallela di via del Tritone, dove fu fatta scoppiare una bomba che uccise 33 soldati tedeschi reclute altoatesine e due vittime civili. Si è detto e scritto molto delle motivazioni dell’attentato, se avesse un significativo interesse militare, o non fosse piuttosto inserito nella tecnica della guerriglia dei GAP, Gruppi di Azione Patriottica, espressione del Partito Comunista, che aveva come finalità quella di aumentare l’odio nei confronti dell’invasore mettendo in conto la crudeltà della rappresaglia a seguito di una azione.
Il contrario di quel che aveva indicato Montezemolo che il 10 dicembre 1943 aveva diramato a tutti i raggruppamenti militari nell’Italia occupata la circolare 333/op, nella quale indicava gli obiettivi dell’organizzazione clandestina e le direttive per la condotta della guerriglia per la liberazione dell’Italia dal nazifascismo. Per evitare rappresaglie da parte nazista sui civili, Montezemolo vieta di compiere attentati dinamitardi e omicidi contro i tedeschi: “nelle grandi città – scrive infatti il Colonnello – la gravità delle conseguenti rappresaglie impedisce di condurre molto attivamente la guerriglia”. La nota – che fa parte di un ordine d’operazioni intitolato “Direttive per l’organizzazione e la condotta della guerriglia”, prosegue: “Vi assume preminente importanza la propaganda atta a mantenere nelle popolazioni spirito ostile ed ostruzionistico verso il tedesco, propaganda che è compito essenzialmente dei partiti; e l’organizzazione della tutela dell’ordine pubblico, compito militare sia in previsione del momento della liberazione, sia per l’eventualità che il collasso germanico induca l’occupante ad abbandonare improvvisamente il territorio italiano”.
Parola d’ordine “guerra al tedesco et tenuta ordine pubblico”, e le direttive erano “organizzare segretamente la forza per assumere al momento opportuno l’ordine pubblico in Roma a favore del governo di Sua Maestà il Re”. La sua organizzazione diventava così direttamente concorrente ai GAP, e – in caso di arrivo delle truppe alleate o improvvisa ritirata di quelle dell’Asse, i suoi uomini e in particolare i Reali Carabinieri avrebbero dovuto garantire l’occupazione dei nodi strategici (radio e ministeri) prima che eventuali bande partigiane non monarchiche potessero appropriarsene.
Era giusto colpire il nemico non nelle strutture di supporto, un arsenale un deposito di armi o di munizioni, ma un reparto in marcia, in modo da provocare una reazione ai danni della popolazione civile? Nessuno può dare una risposta certa, anche se la rappresaglia fu preannunciata ove non si fossero presentati gli autori dell’attentato. Del resto, le truppe tedesche, anche quando in ritirata, si sono spesso rese protagoniste di massacri ingiustificati sul piano militare, per puro spirito di vendetta nei confronti degli italiani, qualunque fosse il loro credo politico.
Per questo ho richiamato il Colonnello Montezemolo ed il Maggiore de Carolis, due soldati al servizio dello Stato. Non mi convince, pertanto, a 79 anni di distanza dall’immane tragedia i distinguo che hanno visto critiche al Presidente del Consiglio Giorgia Meloni da parte dell’ANPI e di varie sponenti dei partiti della sinistra, quanto alla definizione dei morti. Per la prima “la memoria dell’eccidio è da onorare, una strage che ha segnato una delle ferite più profonde e dolorose inferte alla nostra comunità nazionale: 335 italiani innocenti massacrati solo perché italiani”. Per l’ANPI (Associazione Nazionale Partigiani d’Italia) furono uccisi perché antifascisti. C’è indubbiamente del vero tanto nelle parole dell’On. Meloni quanto nella presa di posizione dell’ANPI. E se li qualificassimo semplicemente “patrioti”? Anche se di recente qualcuno ha avuto da ridire nell’uso della parola “patrioti”, eppure ho sentito spesso definire così coloro che lottavano contro l’invasore tedesco. Non è forse “patriottica” la “P” della sigla GAP? Patrioti erano certamente, tra gli altri, Montezemolo e de Carolis.
Quel 24 marzo 1944, io avevo due anni e Giorgia Meloni non era ancora nata. Si ha l’impressione che non si voglia consegnare alla storia e chiudere la parentesi, come Benedetto Croce ha definito quel periodo storico con i gravissimi errori di chi ha portato l’Italia in una guerra che non aveva interesse alcuno a combattere e votato leggi razziali lontane dalla civiltà di questo Paese.
Sembra che si voglia mantenere una costante tensione politica che finisce per distrarre gli italiani e tenerli lontani dal confronto delle idee sul da farsi oggi, nel 2023, perché l’Italia torni ad essere quel “grande Stato”, sono parole di Camillo Benso di Cavour, come l’hanno desiderata i nostri padri che per questo obiettivo si sono impegnati con la penna e con la spada negli studi e nei campi di battaglia dal 1848 al 1918.