A volte, come insegna la storia, la vita politica degrada e il dibattito assume forme di contestazione dei ruoli istituzionali, lontano da quel confronto leale e produttivo di effetti positivi che caratterizza gli ordinamenti che si ispirano ai princìpi della separazione dei poteri ed alla valorizzazione dei contrappesi assicurati in primo luogo dalla funzione arbitrale del Capo dello Stato e dalla attività neutrale delle magistrature.
Chi segue le cronache politiche avrà constatato, in assenza di identificabili riferimenti ideologici o semplicemente ideali, polemiche brutali, a tratti volgari, che allontanano il cittadino dalla politica, come dimostra una crescente astensione dal voto elettorale, financo in quello comunale che dovrebbe coinvolgere più immediati interessi della comunità.
In questi giorni, in particolare, la stampa registra attacchi alla Corte dei conti, organo di garanzia della corretta gestione delle risorse pubbliche, “rea” di aver manifestato al Governo dubbi sulla realizzazione di alcuni progetti finanziati a carico del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR).
La dialettica istituzionale è nella logica del sistema, che attua il contraddittorio. E comunque Governo e Parlamento hanno strumenti per superare il dissenso rispetto alle determinazioni della Magistratura contabile. La polemica, invece, infiamma gli animi e fa immaginare scenari da crisi di sistema perché le posizioni critiche assunte nei confronti della Corte possono essere riferite ad interessi politici non proprio nobili, come quello di individuare, in caso di mancata realizzazione dei progetti, un responsabile da additare ad una opinione pubblica esasperata dalle difficoltà economiche.
La politica stia lontana dagli organi di garanzia, come la Corte dei conti che, tra l’altro, agisce sulla base di regole definite in campo internazionale e presidiate dalla Corte dei conti europea.
Ne ho dedotto che siamo in presenza di una classe politica spesso con scarsa cultura e con inadeguata esperienza di governo e parlamentare. Ed allora, senza voler apparire un laudator temporis acti, che non è nel mio stile, sono andato a rileggere alcuni scritti che mi sembra utile proporre all’attenzione dei nostri lettori. E così comincio con il discorso di Quintino Sella in occasione dell’insediamento della Corte dei conti appena istituita all’indomani della fondazione dello Stato unitario.
Buona lettura
Salvatore Sfrecola
Discorso pronunciato dal Ministro delle finanze, Quintino Sella*, in occasione della istituzione della Corte dei conti del Regno d’Italia (Torino, 1° ottobre 1862)
Signori,
è scritto nei fati che l’Italia si abbia ad unire in grande e libera Nazione. Straniera invidia od intestine imprudenze non valgono a rattenerla, ed ogni giorno che scorre segna uno stadio verso la unificazione della nostra patria.
Un miracolo di Re; l’antico valore risolto in un esercito modello di ogni virtù ed in arditi volontari; e prodigi di senno cittadino, diedero nel volgere di pochi mesi libertà ed unità politica ha quasi tutta l’Italia. Ma l’unità politica non ci bastava.
La comunanza di stirpe; la identità di lingua, di affetti, di religione e d’interessi; la necessità di essere fortissimi, cioè compattissimi, sia per difendere i fatti acquisiti, sia per menare a compimento i supremi destini della patria nostra, volevano ben più intima assimilazione delle Provincie sorelle da tanti secoli barbaramente divise.
Indi ebbe principio un grande arduissimo lavoro, quello della unificazione di non meno di sette, ed anzi per molti rispetti, di nove amministrazioni, e legislazioni diverse. Lavorìo pieno di difficoltà per chi doveva mettervi mano, pieno d’inconvenienti vecchi in parte aboliti ed in parti prossimi a perire, né gli ordinamenti nuovi non ancora compiuti e fiancheggiati da tutte le occorrenti disposizioni agiscono con quella vigorìa e speditezza che è indispensabile.
Per me, o Signori, non meno che i plebisciti valgono a dar prova dall’irrefragabile e fermo proposito degli Italiani di volersi costituire in Nazione, la longanimità con cui tollerano i mali momentanei, che in tanto mutamento di cose non si ponno tutti evitare; la abnegazione con la quale città illustri, e da secoli use al dominio, si rassegnano a scendere dal rango di capitali: e la virtù di questa patriottica Torino, che affretta de’ suoi voti il giorno in cui si entrerà nella città eterna, e nel quale essa perderà bensì il più grande onore, quello di ospitare il suo Re, il Parlamento, ed il Governo, ma la unità d’Italia avrà assetto veramente incrollabile. Ed infatti se i malevoli attribuiscono i plebisciti ad entusiasmo che dicono fugace, come danno ragione della compattezza con cui la Nazione sta raccolta attorno al Re ed al Parlamento, inaccessibile non solo agli intrighi dei nemici d’Italia, ben anco ai generosi slanci, sei inconsulti e contrari alla legge? Forza egli è pure il riconoscere che o i lamentati inconvenienti sono già fin d’oggi sopravanzati dai vantaggi del vivere liberi in grande Nazione, ovvero che nulla vale a scuotere il deliberato, ostinato, inalterabile, proposito in che gli italiani sono di costituire la unità della patria loro. Ed in verità di ben profondo sentire politico dà prova la presente generazione di italiani, che i posteri diranno fortunata, tenendo in non cale mali momentanei a cui la operosità del Governo e del Parlamento, e sovrattutto la libera attività dei liberi cittadini troverà ben pronto rimedio; ma adoperandosi invece a tutt’uomo per conseguire la gloria imperitura di aver liberata la patria dallo straniero servaggio, di averla fatta una e grande, ed assegnandole fra le Nazioni civili quel posto altissimo che le conviene. Né è meraviglia che la unità d’Italia sia tal concetto cui ogni animo bannato s’infiammi; imperocché, senza ricorrere all’epoca romana, basta rammentare come varie terre d’Italia ebbero in più circostanze a meravigliare il mondo con la virtù, con la forza d’animo, con l’ingegno, con lo splendore delle arti e la vastità dei commerci; per inferirne quale debba essere l’avvenire di un Regno che tutte ne riunisca le forze in un fascio che nessuna violenza potrà mai rompere.
Penetrato da questi sentimenti capirete, o Signori, con quanta emozione io sia oggi entrato in questo palazzo, nel quale si sta per l’appunto compiendo la grandiosa opera della unificazione del Debito pubblico; e sai venuto tra voi ad inaugurare il primo Magistrato civile che estende la sua giurisdizione a tutto il Regno. Solenne evento è questo, o Signori, imperocché la creazione di questa Corte, non solo compie la unificazione in uno importantissimo ramo della pubblica amministrazione ma inizia quella unità di legislazione civile che giova ad eguagliare le condizioni dei cittadini, qualunque sia la parte d’Italia ov’ebbero nascimento o tengono dimora.
Io considero quindi la istituzione di questa Corte come una delle più provvide e sapienti deliberazioni che la Nazione debba al suo Parlamento in questa memoranda e imperitura sessione del 1861, in cui esso tanto operò per la patria, e tante prove diede di virtù, di senno e di patriottismo.
A voi, o Signori Magistrati di tutto il Regno d’Italia (e vivamente me ne congratulo), è toccata la ventura d’inaugurare sì splendido fatto.
Altissime sono le attribuzioni che la legge a voi confida. La fortuna pubblica è commessa alle vostre cure. Della ricchezza dello Stato, di questo nerbo capitale della forza e della potenza di un paese voi siete creati tutori.
Né ciò basta: ad altre nuovissime e nobilissime e funzioni foste inoltre chiamati. È vostro compito il vegliare a che il Potere esecutivo non mai violi la legge; ed ove un fatto avvenga il quale al vostro alto discernimento paia ad essa contrario, è vostro debito il darne contezza al Parlamento. Delicatissimo ed arduo incarico, tanto che a taluno pareva pericolo l’affidarlo a Magistrati cui la legge accorda la massima guarentigia d’indipendenza, cioè la inamovibilità. Questo timore non ebbi, no, o Signori, e non esitai a propugnare per voi così delicate attribuzioni, ed il feci perché ho fede illimitata così nel senno civile degli Italiani, come soprattutto in un regime di piena libertà e di completa pubblicità; regime che agli Italiani, certo quanto ad ogni altro popolo civilissimo meravigliosamente conviensi. Il feci per la fiducia che avevo negli illustri personaggi che il Governo intendeva chiamare dalle varie Provincie del Regno a questa Corte, sotto la guida di un venerando uomo di Stato che da ormai undici lustri rende servigi eminenti alla patria, ben degno che l’ufficio nobilmente tenuto nel Regno di Sardegna, il conducesse a quello di presiedere la Corte dei conti del Regno d’’Italia. Così composta la Corte, io ero certo che sarebbesi mirabilmente conciliata l’osservanza della legge con la prudenza che in momenti difficili potrebbe tornare indispensabile. Né dubitai che i miei successori avrebbero sempre chiamati tra voi uomini tali che non verrebbero meno alle virtù ed al patriottismo che v’illustra.
A voi spetta quindi il tutelare la pubblica fortuna, il curare la osservanza della legge per parte di chi le debba maggiore riverenza, cioè del potere esecutivo, senza che abbia a menomare quella energia e prontezza di esecuzione che in alcuni momenti decide dell’avvenire di un paese. Voi adempirete il vostro comandato in guisa che dalla istituzione di questa Corte l’Italia tragga i più lieti auspici per la sua unità amministrativa e legislativa.
Con profonda commozione dell’animo io quindi, in nome del Re, dichiaro insediata la Corte dei conti del Regno d’Italia, e saluto in voi il primo Magistrato civile che su tutta Italia stende la sua giurisdizione. Dissi tutta Italia; ma ohimè che due nobilissime Provincie ci fan tuttora difetto e questa solenne funzione non si compie laddove essa doveva compiersi. Ebbi forse torto di ricordare in sì fausto giorno infausto giorno pensiero sì triste? No certo, perché v’ha tal corruccio che niuna letizia vale a disgiungere dall’animo; v’ha tal proposito il quale si fa tanto più altamente sentire quanto più grande è la solennità dell’emozione. No certo, perché gli è appunto per congiungerci presto alle spartite sorelle che le Provincie libere vogliono il sollecito ordinamento e la pronta unificazione, che l’Italia fa plauso al suo Re in nome del quale la unità nei civili Magistrati con la Corte dei conti oggi si inaugura.
* Il Professore, lo scienziato, il politico, l’alpinista
Potrebbero essere sufficienti le parole di Alfredo Oriani per presentare, a chi non lo conoscesse, Quintino Sella, straordinaria personalità di scienziato, docente universitario, politico, alpinista: “Era così democratico da non sentire vanità per nessuna carica, ed abbastanza aristocratico per appassionarsi a tutte le più fini bellezze dello spirito; adorava la famiglia come un antico, esercitava la politica come un dovere, ritornando nei suoi intervalli alla scienza e conservando sino agli ultimi giorni la passione delle Alpi e delle miniere, senza chiedere alla Nazione né premio, né giustizia per la propria opera”.
Nato nel 1827 nella frazione Sella di Valle Superiore del comune di Mosso, in provincia di Biella, ottavo dei venti figli di Maurizio e di Rosa Sella, famiglia attiva nel settore della lavorazione della lana fin dal Seicento, Quintino è indirizzato dal padre agli studi di ingegneria idraulica, necessaria per l’azienda di famiglia. Si laurea a vent’anni a Torino ma poi si dedica agli studi in campo minerario, la sua passione, che approfondisce presso la prestigiosa Ecole del Mines di Parigi. Viaggia molto per coltivare la passione delle pietre. “Ho occasione – scrive alla madre – di studiare delle bellissime pietre, e ciò mi fa passare qualche ora felice. Non avrei mai creduto che lo studio della natura fosse così allettevole”.
Professore di Geometria applicata alle Arti nel 1852 presso il Regio Istituto Tecnico di Torino che, grazie al suo interessamento, diventerà Scuola di Applicazione per gli ingegneri nel 1859 (dal 1906 Politecnico di Torino) nel 1853 è nominato professore sostituto di Matematica presso l’Università di Torino.
I suoi lavori scientifici nel campo della cristallografia teorica e di quella morfologica, tradotti all’estero, come le lezioni sul disegno assonometrico dei cristalli, gli assicurano una fama internazionale tanto che il mineralogista tedesco Johann Strüver dà il suo nome a un nuovo minerale ritrovato in una morena di un ghiacciaio della Savoia, a base di fluoruro di magnesio la “sellaite”. Nel 1861 è membro eletto dell’Accademia delle Scienze di Gottinga. Anche nelle scienze matematiche apporta perfezionamenti teorici e pratici e diffonde l’uso del regolo calcolatore.
Appassionato cultore di arte, storia, e antichità in generale, effettua ricerche paleografiche su importanti documenti. Trascrive e pubblica anche il manoscritto trecentesco conosciuto come Codex Astensis che gli era stato donato dall’Imperatore austriaco Francesco Giuseppe nel 1876, a seguito del proficuo esito delle trattative per il riscatto delle ferrovie dell’Alta Italia, condotte da Sella in qualità di rappresentante del Regno d’Italia a Vienna.
Nel 1859 è membro della Commissione per il riordino degli studi universitari (legge Casati) e del Consiglio superiore di Pubblica Istruzione.
Sollecitato da Camillo Benso Conte di Cavour inizia il suo impegno politico. Si impone subito come uno dei più autorevoli rappresentanti della Destra Storica: nel 1861 è Segretario generale al Ministero della pubblica istruzione e il 3 marzo 1862 assume il Ministero delle finanze nel Governo Rattazzi. Lo sarà ancora nel Governo La Marmora e poi Lanza (dal 1869 al 1873). È tra i più accesi sostenitori della presa di Roma e nel 1871 ispira anche la legge delle Guarentigie.
In una fase assai critica gravata dai costi dell’unificazione che rischiano di mandare il nuovo Stato italiano in default, si dedica al pareggio del bilancio statale, attuando una politica di economie e di inasprimenti fiscali sui consumi e sui redditi, ricorrendo talvolta a provvedimenti impopolari. Uno di questi è l’imposta sul macinato.
Nel 1869 istituisce a Biella la prima scuola professionale pubblica, l’attuale ITIS Q. Sella, e nel 1870 presenta il progetto di legge volto all’istituzione delle casse di risparmio postali.
Dal 1876, caduto il Ministero Minghetti, Sella viene nominato capo della Destra.
Amante della montagna all’età di undici anni aveva compiuto la sua prima ascensione, al Monte Mucrone (2335 m). Nel 1854 compie una delle prime ascensioni al Breithorn (4164 m) nel gruppo del Monte Rosa. Nell’agosto del 1863 Quintino compie la prima spedizione tutta italiana sul Monviso. Avanza la proposta della fondazione di un Club Alpino (23 ottobre 1863) che due anni dopo diverrà Club Alpino Italiano (C.A.I.).
Muore il 14 marzo 1884. È sepolto nel cimitero monumentale di Oropa.
Il Club Alpino gli dedicherà diversi rifugi.