di Salvatore Sfrecola
Come sempre quel che scrive Michele Ainis si può condividere o meno. Ma, in ogni caso, fa riflettere. Il Professore non è, come molti, malato di ideologia, ha senso pratico e interpreta le esigenze del funzionamento delle istituzioni con riferimento ai princìpi, alle regole di sistema che, nel caso di quelle costituzionali, sono destinate ad accompagnare nel tempo la vita di una comunità, finché non siano modificate da una trasformazione radicale. Nel senso che le correzioni e le integrazioni quando originate da contingenti finalità politiche hanno avuto l’effetto di alterare l’armonia del sistema, come la riforma del titolo quinto della Costituzione del 2001 che non solo ha intasato la Corte costituzionale di conflitti Stato-Regioni ma ha reso inefficiente la gestione delle grandi opere di interesse nazionale, come constatato più volte e, da ultimo, drammaticamente in questi giorni con gli effetti disastrosi delle imponenti piogge che hanno messo in ginocchio la Romagna priva di adeguate infrastrutture di regolamentazione delle acque. Anche la riduzione del numero dei parlamentari, “fiore all’occhiello” del Movimento 5 Stelle si è rivelato, come molti avevano previsto, causa di una riduzione della democrazia per effetto della minore rappresentanza assicurata ad alcune aree territoriali ed a minoranze linguistiche.
Ebbene, il Professore Ainis con un articolo, “I rischi delle riforme costituzionali – Non ingessate le istituzioni” (La Repubblica del 18 maggio), riflette sulle riforme di cui si sente dire procedendo dalla constatazione che “una sola” è la diagnosi delle malattie di cui soffre la Repubblica, l’instabilità. Per cui “serve un’iniezione di stabilità governativa”, considerato che sessantotto governi in settantacinque anni “sono troppi, non se ne può più”. Diagnosi condivisa anche dalle opposizioni, “da qui l’auspicio di studiosi e opinionisti: un elisir di lunga vita a chi si metta in tasca le chiavi del governo. Con il presidenzialismo, o con qualche forma di presidentismo copiata dalle esperienze altrui”. Una ricognizione al termine della quale Ainis si chiede se “è davvero questa la suprema virtù della riforma”.
Ora non è dubbio che nell’esperienza repubblicana, ma anche in alcuni momenti del regime monarchico, i governi siano stati spesso di breve durata e questa circostanza intuitivamente impedisce anche ai migliori propositi di essere realizzati. Per cui il “buon governo”, inteso come attuazione del programma presentato alle Camere, appare necessariamente collegato alla durata del mandato, ad un chiaro “orizzonte temporale” che consenta di definire e, soprattutto, di realizzare quanto promesso in sede elettorale. Ricorda Ainis come Costantino Mortati, uno dei più illustri tra i costituenti, abbia osservato che non è tanto la continuità delle persone ad esprimere la stabilità, quanto “la continuità dell’indirizzo politico”. Ciò che ha assicurato nella cosiddetta Prima Repubblica una sostanziale continuità dell’indirizzo governativo in quanto le crisi che hanno caratterizzato quegli anni erano dovute soprattutto a fibrillazioni all’interno della Democrazia Cristiana nella quale mutavano gli equilibri tra le correnti pur nella sostanziale continuità dei programmi di governo.
Individuata la “malattia” della Repubblica, come accade per le patologie umane, diverse, spesso molto diverse, sono le terapie proposte, tutte naturalmente salvifiche.
Partiamo dal presidenzialismo che è tradizionalmente uno dei temi forti del programma ideologico-politico di alcuni dei partiti che si collocano a destra dello schieramento. Non convince Ainis per il quale “con il presidenzialismo, la stabilità del governo può rendere instabile il Paese. Giacché la durata fissa del mandato impedisce di risolvere le crisi politiche rimuovendo il presidente”, possibile solamente attraverso una sorta di impeachment difficile da mettere in campo dinanzi alle Camere in un contesto che avrebbe tutto il sapore di una crisi di sistema. Rimane l’ipotesi di dimissioni in caso, ad esempio, di sfiducia costruttiva, come proponeva nella scorsa legislatura il progetto di legge Meloni ed altri, una scelta parlamentare che, mandando a casa il Presidente del Consiglio scelto dal Capo dello Stato, di fatto sfiducia anche lui.
Un pasticcio, come dimostra l’esperienza francese dove il semipresidenzialismo funziona solamente se il Presidente dispone di una forte maggioranza, ma in caso di coabitazione le cose vanno avanti con grande difficoltà, come sa bene Emmanuel Macron. Per cui Ainis conclude che “la virtù di un buon sistema di governo non consiste nella stabilità, bensì, all’opposto, nella sua flessibilità… Da qui un appello ai nostri ri-costituenti: evitate di cucire una camicia di gesso sul corpo delle nostre istituzioni. Altrimenti la storia finirà per frantumarla in mille pezzi”.
Riflessione indubbiamente interessante, come ho premesso per ogni contributo del Prof. Ainis, ma non esaustiva. Rimaniamo in mezzo al guado. Perché i presidenzialisti direbbero che non è risolto il problema della stabilità del governo. Certamente non con la semplice elezione diretta del Capo dello Stato perché la scelta sarà necessariamente di una coalizione di partiti che probabilmente troveranno modo di dividersi in sede di elezione delle Camere del Parlamento. Con l’effetto che, come ricordato, conosce bene il Presidente Macron.
Il fatto è che noi non dobbiamo guardare solamente alle esperienze del presidenzialismo stile Stati Uniti d’America, improponibile in Italia che non è una repubblica federale alla quale pensano solamente i nostalgici dell’indipendenza della Padania, né del semipresidenzialismo alla francese di cui si è detto. Perché, cosa che sfugge spesso ai nostri opinionisti, la governabilità è, al fondo, una questione di adeguatezza della classe politica, della sua sintonia con gli orientamenti dell’elettorato misurati in un rapporto diretto eletto-elettore che consenta uno scambio costante di intendimenti sul da farsi per il bene della comunità.
Ed allora un esempio di stabilità è ricavabile dall’esperienza del Regno Unito il quale la fonda sulla consistenza dei gruppi parlamentari composti di deputati eletti, non nominati come avviene da noi. E se la finalità è quella di sapere un minuto dopo l’esito delle elezioni legislative chi governerà il paese dal giorno dopo noi sappiamo che a Londra questa condizione è assicurata dall’immediata attribuzione dell’incarico di formare il nuovo governo al leader della maggioranza parlamentare che corrisponde al capo del partito che ha vinto le elezioni. Sulle rive del Tamigi vi provvede il sovrano, in una repubblica parlamentare potrebbe provvedervi un Presidente eletto direttamente dal popolo.
Tutto questo per sottolineare il ruolo centrale che in una democrazia rappresentativa va riconosciuto alle Camere composte da personalità della politica selezionate in modo da ricevere il consenso popolare e, pertanto, forti di una indipendenza che è anche la loro forza e garantisce la continuità delle scelte politiche. Senza vincolo di mandato perché questo è implicito nella scelta elettorale. Invece i nostri partiti vorrebbero eliminarlo per continuare a scegliere chi deve essere eletto, spesso senza che gli elettori sappiano neppure della sua esistenza.
Siamo all’inizio delle riflessioni sul tema delle riforme costituzionali. Ma qualche elemento di discussione lo abbiamo recepito ed altri ne abbiamo messi sul tappeto. Almeno spero.