di Salvatore Sfrecola
“Il Piave mormorava/ Calmo e placido, al passaggio/ Dei primi fanti, il ventiquattro maggio/ L’esercito marciava/ Per raggiunger la frontiera/ Per far contro il nemico una barriera”. La conosciamo tutti, o quasi, la Canzone del Piave. E sappiamo che quel 24 maggio 1915 era iniziata una guerra che avrebbe finalmente completato il Risorgimento nazionale e dato al Regno d’Italia i confini naturali delineati dalla geografia, il che significava strappare Trento e Trieste alla dominazione austriaca, al “nemico storico”, come avrebbe scritto Luigi Einaudi.
Protagonista politico, diplomatico e militare sarà il Re Vittorio Emanuele III, come delineato nel bel libro di Andrea Ungari “La guerra del Re”. Gli eventi che portarono l’Italia in guerra sono segnati dalla sua iniziativa. Il Patto di Londra, firmato il 26 aprile 1915, con il quale l’Italia s’impegnava a scendere in guerra entro un mese a fianco di Inghilterra e Francia, fu fortemente voluto dal Re in un contesto politico interno tendenzialmente proteso alla neutralità che l’Italia aveva mantenuto fino ad allora mentre la guerra divampava su tutti i fronti fin dal 1914.
Fu chiamato “il Re soldato”, e certamente lo è stato, attento alla conduzione delle operazioni militari ed alle attitudini dei comandanti. “Questo generale un giorno potrà servire”, detto in tempi non sospetti di Armando Diaz, dimostra nel Re quella “acuta intuizione degli uomini”, che gli riconobbe Gioacchino Volpe. Come la capacità di percepire il senso degli eventi, quando espresse preoccupazioni per l’intenso bombardamento di artiglieria delle nostre posizioni tra il 22 e il 23 ottobre 1917, alla vigilia del grande attacco di Caporetto. Angelo Gatti, l’ufficiale addetto al Comando supremo, che ci ha lasciato un’importante testimonianza degli eventi nel suo “Caporetto – Diario di guerra”, lo definisce “terribile”. Eppure ampiamente sottovalutato, nonostante ci fosse nell’aria “un odore di inquietudine”. Anche perché si sapeva che era in corso il rafforzamento del dispositivo austro-tedesco, con 9 divisioni di von Below ed il Corpo d’armata di von Stein. Solo il Re aveva intuito che quell’intenso cannoneggiamento era diretto a saggiare la nostra capacità di resistenza in alcune posizioni chiave in vista della “grande offensiva”. Ne parlò con Capello e Cadorna, che però attendeva un attacco solo a primavera.
Il Re non aveva solamente attenzione per gli eventi bellici, per lui naturale essendo il Capo supremo delle Forze Armate. Va ricordato anche il suo ruolo politico in vista della guerra che riteneva fosse l’occasione propizia per il completamento dell’unità d’Italia per la quale avevano messo in gioco i destini della Dinastia Re Carlo Alberto ed il nonno, Vittorio Emanuele, primo Re d’Italia. Per lui il 24 maggio 1915 inizia la quarta guerra d’indipendenza, quella che avrebbe consegnato alla Patria Trento e Trieste e riunito al giovane regno le terre della costiera adriatica italianissime, ovunque Venezia aveva portato lingua e cultura nel corso dei secoli.
Aveva operato con grande saggezza, anche quando era ricorso a pressioni su uomini e partiti perché scegliessero di abbandonare la neutralità, proclamata all’indomani dell’uccisione di Francesco Ferdinando a Sarajevo, per entrare in guerra a fianco di Francia e Inghilterra in un’alleanza naturale per un Paese che s’incunea nel Mediterraneo e che doveva assicurare via mare i collegamenti con le colonie. Esigenza lucidamente delineata dall’ammiraglio Paolo Thaon di Revel, straordinario riorganizzatore della nostra Marina da guerra, ristrutturata a misura delle reali esigenze di una flotta che sarebbe stata impegnata soprattutto in Adriatico. Meno grandi corazzate, di cui si erano dotate tutte le flotte, più mezzi di medio tonnellaggio, veloci e bene armati, fino al “motoscafo armato silurante”, il famoso MAS (sigla ribattezzata dall’immaginifico poeta D’Annunzio memento audere semper), che avrebbero avuto un ruolo essenziale contro la marina austroungarica, plasticamente rappresentato dall’affondamento della corazzata Santo Stefano, colata a picco il 10 giugno 1918 nei pressi dell’isola di Premuda in Dalmazia.
Fu un’abile politica diplomatica quella del Re condotta sulla base dei poteri che gli conferiva l’art. 5 dello Statuto del Regno (“Al Re solo appartiene il potere esecutivo. Egli è il Capo Supremo dello Stato: comanda tutte le forze di terra e di mare; dichiara la guerra: fa i trattati di pace…”), come attestano i rapporti che curava con gli alleati, in particolare con l’ambasciatore inglese Rodd che dei colloqui con il Sovrano ha lasciato ricordi di grande interesse storiografico. Come per la “questione adriatica” che ancora tornava a richiamare nel corso dei lavori della Conferenza di pace di Versailles, perché se il Paese “ha ottenuto dalla guerra i suoi confini naturali.. non tutte le aspirazioni dell’Italia sono state considerate con quello spirito di giustizia che dovrebbe controllare la soluzione di gravi controversie… tanto più nobili in quanto si limitano a difendere un idealismo nazionale basato su un diritto che ha le sue origini sia nella natura che nella storia”.
Ad altra diplomazia il Re dovette ricorrere assai spesso nei tre anni di guerra per evitare che i contrasti tra Governo e Capo di Stato maggiore, il Generale Luigi Cadorna, avessero effetti negativi sull’andamento delle operazioni, non solo quanto alla fornitura di armi ed equipaggiamenti, richiesti e spesso negati o limitati dall’Autorità politica. Anche la strategia del Comando Supremo spesso non era condivisa dai Presidenti del Consiglio e dai Ministri della guerra, generali di fiducia del Re. Specialmente a fronte dell’alto numero di vittime ritenuto a Roma effetto delle tecniche di combattimento che Cadorna aveva condensato nella famosa circolare n. 191 del 25 febbraio 1915, che prevedeva l’offensiva ad oltranza con assalti ripetuti all’arma bianca, assolutamente sconsigliati, fin dalla guerra di secessione americana, dall’adozione di un’arma micidiale, la mitragliatrice. Come aveva dimostrato, anche, la “battaglia delle frontiere” in Alsazia e Lorena dove migliaia di fantaccini francesi erano stati mandati a morire contro le mitragliatrici tedesche, come nel celebre film di Stanley Kubrick, “Orizzonti di gloria”,
Sempre presente in ogni giornata di quella lunga guerra, il Re era anche, come si è accennato, un attento osservatore dell’andamento degli eventi, del morale della truppa, della capacità degli ufficiali di essere guida idonea di quella congerie di uomini che parlavano dialetti diversi, chiamati a combattere in condizioni climatiche avverse, lontano dalle terre di origine. È il disagio che percepirà immediatamente il nuovo Comandante Generale, Armando Diaz, attento al benessere dei soldati del quale aveva dimostrato di aver cura già nella guerra di Libia, dove si era distinto, oltre che per le capacità organizzative e strategiche, per quel rapporto umano che ne farà un generale moderno.
Quanti sono portati a valutazioni superficiali, nelle cronache e nei libri di storia hanno scritto del “Re fotografo”, trascurando che quelle foto costituivano osservazioni di luoghi e di ambienti e favorivano la percezione degli avvenimenti che consentivano al Sovrano di suggerire ed indicare, laddove era necessario, come nella già ricordata vigilia di Caporetto. All’indomani di quel tragico evento fu l’unico a non perdere la testa. Volle che dal comunicato dello Stato maggiore firmato da Cadorna fossero espunte le frasi che attribuivano la responsabilità dell’evento alla scarsa resistenza di alcuni reparti. Aveva fiducia nei suoi soldati, osservati giorno dopo giorno nelle lunghe peregrinazioni al fronte, e ne fu testimone a Peschiera del Garda il giorno 8 novembre 1917, quando ribaltò il giudizio negativo sulla nostra capacità di resistenza che i Comandanti generali francesi ed inglesi avevano manifestato il 6, a Rapallo, dove gli alleati si erano riuniti in conferenza preliminare “con esclusione dei nostri”, ricorda Gatti, che “attesero così, alla porta, come servitori, che gli altri decidessero”. “I nostri” erano il Presidente del Consiglio, Orlando, il Ministro degli esteri, Sonnino, il Ministro della Guerra, Alfieri e il Sottocapo di Stato maggiore Porro.
I lavori si erano conclusi con la richiesta di sostituzione di Cadorna e di un nuovo schieramento dell’Esercito italiano oltre il Mincio o il Tagliamento, ipotesi che il Re considerava assolutamente sbagliata e pericolosa per l’andamento della guerra.
Riconvocò, dunque, tutti a Peschiera, per la Gran Bretagna il primo ministro Lloyd Gorge, con i generali Robertson e Wilson; per la Francia il primo ministro Pailevé ed il ministro Bouillon accompagnati dal generale Foch e dall’Ambasciatore Barrére. E li convinse che gli italiani avrebbero resistito sul Piave, una decisione che porterà alla vittoria, non solo per le armi italiane ma per l’intera coalizione, perché è sul fronte italiano che le armate dell’Impero austro-ungarico sono state logorate. Parlò due ore, solo lui, in inglese e in francese, con estrema decisione riscuotendo l’ammirazione di Lloyd George, che ne ha lasciato un dettagliato resoconto.
Un Re, dunque, al centro del sistema politico italiano al quale “sia agli alleati sia la classe dirigente liberale si sono rivolti per tutta la durata del conflitto”, si legge nel risvolto della copertina de “La guerra del Re”, di Andrea Ungari, un volume fondamentale anche per apprezzare il ruolo del Re nelle relazioni diplomatiche di quegli anni.