di Salvatore Sfrecola
Condivido quanto scrive oggi Marcello Veneziani su La Verità, a proposito di Giorgia Meloni che “alza la voce perché la politica ha perso la sua”. Un titolo che avvia una riflessione sul “tono comiziale, romanesco e urlato dei suoi ultimi interventi” che sono stati oggetto di commenti critici da parte di sinistri, politici e giornalisti. E se Veneziani coglie nel segno quando sottolinea che quegli atteggiamenti hanno reso palese agli occhi di molti italiani che l’hanno votata la percezione della genuinità della leader di Fratelli d’Italia, la sua vena popolare e la sua passione politica, lo scrittore si dice convinto che con “quel tono sgradevole” la Meloni “tenta di risvegliare la sonnolenza della politica in una fase di neutralizzazione, di anestesia delle idee e delle passioni; stiamo scivolando in una specie di atrofia e afonia politica a vantaggio di una gestione tecno-funzionale. Niente riforme grandi, niente rivoluzione, solo manutenzione. Sarebbe facile obiettare che non è il tono a tenere sveglia la politica, non sono gli slogan urlati e i comizi di piazza, che sceneggiano il ritorno alla calda passione; ma dovrebbero essere i contenuti, le linee, le strategie, gli uomini scelti”.
Ma se è vero, e non è possibile dissentire che “il silenzio mortale della politica risale all’assenza totale di veri competitori della Meloni”, non condivido l’ulteriore considerazione secondo la quale “Meloni alza la voce perché non ci sono altre voci nel nostro Paese… calma piatta, vuoto totale”. È vero, Matteo Renzi non raccoglie consensi, Elly Schlein e Giuseppe Conte, scrive Veneziani “sono obiettivamente imbarazzanti”. Carlo Calenda, aggiungo io, non pervenuto, uno che ha sbagliato tutte le mosse da quando, avendo riscosso un lusinghiero consenso nelle elezioni a Sindaco di Roma, al ballottaggio ha passato i voti a Gualtieri. E di lì è stato un declino al momento inarrestabile.
A questo punto, però, che senso ha ricorrere al “tono comiziale, romanesco e urlato” difronte al “silenzio mortale della politica… all’assenza totale di veri competitori”? Insomma, a chi urla Giorgia Meloni oggi leader di una solida maggioranza parlamentare e Presidente del Consiglio dei ministri? Da Palazzo Chigi si deve parlare con la ferma determinazione di chi è sicuro delle cose che fa e di quelle che promette. È quello che deve sentire chi ha votato Giorgia Meloni e chi in ogni caso ne condivide le scelte. L’immagine del Presidente del Consiglio non deve piacere o meno alla Schlein o a Conte ma all’elettore di centrodestra che desidera percepire dal tono delle parole del leader la consapevolezza del suo ruolo. E vi assicuro che, a molti, i toni usati non sono piaciuti. Anche se non tutti hanno il coraggio di dirlo.
La tradizione della destra italiana ha fatto conoscere ed apprezzare, anche da chi politicamente era distante, grandi oratori, da Alfredo Covelli a Giorgio Almirante, da Giovanni Malagodi a Raffaele Costa, per dire solo dei più noti al grande pubblico. Nessuno urlava ma tutti coloro che li ascoltavano percepivano chiarezza di idee e fermezza nel realizzarle. Camillo Benso di Cavour, che negli interventi parlamentari dimostrava una straordinaria energia nel contrastare chi si opponeva alla sua politica, alzava la voce nella misura necessaria, non un tono in più. Mentre scrivo mi torna in mente la pubblicità di un té che vantava “la forza dei nervi distesi”.