di Salvatore Sfrecola
Ho veramente difficoltà a comprendere i motivi per i quali, di fronte ad una opposizione che ha perduto in malo modo le elezioni nazionali, e quelle più recenti, pressoché “alla canna del gas”, il Governo e la sua maggioranza diano l’occasione a questi sbandati di alzare il tono della polemica, avendo avviato una contestazione della Magistratura, sia pure riferita a “parte” di essa, della quale non si sentiva assolutamente il bisogno. Ambienti di Palazzo Chigi affermano che tra i magistrati vi sono alcuni che, di fatto, sembrano “svolgere un ruolo attivo di opposizione”. E, di seguito, altri propongono di modificare le regole dell’iscrizione nel registro degli indagati, di eliminare la cosiddetta “irragionevole imputazione coatta”, imposta dal GIP al Pubblico Ministero, e torna l’ipotesi, cara a Berlusconi ed a Forza Italia, di separare la carriera dei magistrati giudicanti da quella dei requirenti. Il Ministro della Giustizia Carlo Nordio, ex magistrato, vuole riformare le regole che lui, da Sostituto Procuratore, applicava con assoluta disinvoltura e questo acuisce la tensione con l’Associazione Nazionale Magistrati (ANM) che denuncia, con le parole del Presidente Giuseppe Santalucia, “critiche pesantissime”. Il tema è “la legittimazione della Magistratura”. Ciò che conferma quel che molti pensano da tempo: la scelta di Nordio è stata un errore. Le riforme da fare richiedono equilibrio e vanno fatte d’intesa con il variegato mondo della giustizia, magistrati e avvocati perché un “buon” processo interessa gli uni e gli altri. A via Arenula ci voleva un ministro sereno, non uno che deve far vedere di essere passato alla politica con armi e bagagli.
È da quando è sceso in campo Silvio Berlusconi che i rapporti tra politica e magistratura sono profondamente cambiati. Non che in precedenza fossero mancati motivi di contrasto per indagini condotte a carico di esponenti politici, ma uomini di governo come Giulio Andreotti, Arnaldo Forlani e lo stesso Bettino Craxi, sapevano affrontare il tema senza fare barricate e senza illazioni sul colore della toga di coloro che, pubblici ministeri o giudici, indagavano o decidevano sui loro amici. Con Silvio Berlusconi le cose sono cambiate, non perché, come vuole la vulgata dei suoi amici, i giudici abbiano cominciato ad occuparsi di lui subito dopo l’assunzione dell’impegno politico in Forza Italia. In realtà, le vicende oggetto delle prime indagini riguardavano eventi precedenti, inerenti al Berlusconi imprenditore. E tanto lo sapeva bene Silvio Berlusconi che, nel suo primo governo, nel 1994, propose al Presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, di nominare Ministro della Giustizia il suo avvocato, Cesare Previti. Iniziativa che non andò in porto perché dal Quirinale venne un no secco ad una proposta che non doveva neanche essere avanzata, ma che dimostrava, in realtà, quello scarso senso delle istituzioni che, al “Presidente imprenditore” è stato ripetutamente contestato.
Quel clima di scontro viene oggi ripreso nel momento in cui alcuni esponenti di Fratelli d’Italia collegano le indagini su Daniela Santanchè, Ministro del turismo, e su Andrea Del Mastro Delle Vedove, Sottosegretario alla giustizia, all’esigenza di riformare norme processuali sui tempi delle istruttorie. In sostanza, il ragionamento è questo, come appare ai cittadini: i giudici si occupano di noi e noi cambiamo le regole del gioco, atteggiamento non nuovo per l’intolleranza, quasi strutturale, del potere politico rispetto al controllo di legalità riservato ai giudici. La temperatura sale e qualcuno immagina di lucrare su una diffusa scarsa stima che caratterizza il sentimento degli italiani nei confronti della Magistratura. Forse nei tempi lunghi. Per il momento, secondo un sondaggio di Dire-Tecné, la Premier avrebbe perso qualche decimale nella fiducia degli italiani. Poco, se si considera il momento del voto ancora lontano ma sufficiente ad alimentare un disagio palpabile nel sentiment degli elettori di “destre” al fondo molto diverse, soprattutto degli ex democristiani e liberali.
Ora, che la Giustizia abbia bisogno di riforme lo sanno tutti e lo percepiscono tutti, soprattutto coloro che non riescono ad avere una sentenza in tempi brevi. Lo sanno bene gli imprenditori, italiani e stranieri, che non investono in Italia perché ogni vertenza, civile o amministrativa, rischia di prolungarsi nel tempo, con effetti negativi sulle prospettive dell’attività imprenditoriale. Lo sanno bene le vittime dei reati che spesso non riescono ad ottenere giustizia. E lo sanno bene anche gli avvocati, i quali si trovano a fare i conti con un complesso di norme processuali defaticanti, le quali, invece di essere rese coerenti, per quanto possibile, fra i vari processi, sono assolutamente disomogenee affaticando la difesa dei diritti. Lo sanno bene i cittadini, solo che leggano i giornali, i quali percepiscono che la lentezza della giustizia è essa stessa ingiustizia rispetto a fatti che, secondo la sensibilità della gente dovrebbero essere rapidamente definiti e, in caso di processi penali, puniti.
Tornando a quanto emerge dal dibattito politico e giornalistico di questi giorni, è evidente che tanto Daniela Santanchè quanto Andrea Del Mastro sono inadeguati rispetto ai ruoli che rivestono, tanto da mettere in difficoltà una persona loro amica, la Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, costretta a difenderli su vicende che avrebbero dovuto essere chiuse immediatamente con una opportuna lettera di dimissioni. Non voglio ricordare la famosa “moglie di Cesare”, allontanata perché della sua onestà non si doveva neanche dubitare, ma è chiaro che, di fronte a un articolo 54 della Costituzione il quale afferma che le funzioni pubbliche debbono essere adempiute “con disciplina ed onore”, un ministro indagato, al di là di come la notizia sia stata diffusa, considerato che la segretezza era stata superata già da alcuni mesi, ed un Sottosegretario il quale porta fuori dal suo ufficio un documento, ancorché non coperto da segretezza (ma sembra che lo fosse), per darlo a un amico che ne avrebbe fatto uso in Parlamento, non è un atteggiamento corretto. Non è assolutamente quanto si richiede a una persona delle istituzioni, che abbia un minimo senso dello Stato.
Detto questo, politica e magistratura debbono marciare separate perché sono espressione di due diverse funzioni dello Stato. E vorrei riandare, in conclusione, ad un pomeriggio di parecchi anni fa quando furono inquisiti, con un colpo solo, numerosi esponenti di partito con compiti di amministrazione e gestione di quelle risorse che, alla Camera, Bettino Craxi avrebbe poi affermato, era il 3 luglio 1992, essere frutto di un sistema di finanziamenti “irregolare o illegale”. Il Presidente del Consiglio, Giulio Andreotti, non batté ciglio. Avviò un dialogo garbato con esponenti della magistratura, preoccupato soprattutto di evitare ripercussioni sull’elettorato. E così fu.