di Camillo Benso di Cavour, Presidente del Consiglio del Regno d’Italia*
con una postila di Salvatore Sfrecola
Signori deputati, l’onorevole deputato Audinot con parole gravi ed eloquenti, quali si addicevano all’altezza dell’argomento che egli ha preso a trattare avanti a voi, anziché rivolgere al Ministero interpellanze su fatti speciali, vi ha fatto una magnifica esposizione della questione di Roma. Nel conchiudere il suo discorso, egli lo riassumeva chiedendo al Ministero chiarimenti su due punti particolari, cioè sulle voci che correvano e corrono circa a negoziazioni intavolate con Roma, e circa pratiche fatte o da farsi per ottenere l’applicazione del principio di non intervento alla questione romana; poi terminava con una interpellanza di ben altro momento, terminava, cioè, chiedendo al Ministero quale fosse la linea di condotta che egli intendeva seguire in questo supremo argomento.
E ben egli si apponeva; l’attuale discussione non poteva, né doveva essere ristretta allo scambio di poche spiegazioni; poiché la questione di Roma è posta sul tappeto, ragion vuole che essa sia trattata in tutta la sua ampiezza.
Ma, o signori, prima di accingermi a rispondere non solo propriamente alle interpellanze dell’onorevole deputato Audinot, ma a quel complesso di considerazioni ch’egli ha esposte con tanta efficacia, mi sia lecito il ricordarvi che l’attuale questione è forse la più grave, la più importante che sia stata mai sottoposta ad un Parlamento di libero popolo. La questione di Roma non è soltanto di vitale importanza per l’Italia, ma è una quistione la cui influenza deve estendersi a 200 milioni di cattolici sparsi su tutta la superficie del globo; è una quistione la cui soluzione non deve solo avere un’influenza politica, ma deve esercitarne altresì una immensa sul mondo morale e religioso.
L’onorevole deputato Audinot vel disse senza riserva: Roma debb’essere la capitale d’Italia. E lo diceva con ragione; non vi può essere soluzione della questione di Roma, se questa verità non è prima proclamata, accettata dall’opinione pubblica d’Italia e d’Europa. Se si potesse concepire l’Italia costituita in unità in modo stabile, senza che Roma fosse la sua capitale, io dichiaro schiettamente che reputerei difficile, forse impossibile la soluzione della questione romana. Perché noi abbiamo il diritto, anzi il dovere di chiedere, d’insistere perché Roma si è riunita l’Italia? Perché senza Roma capitale d’Italia, l’Italia non si può costituire.
A prova di questa verità già vi addusse molti argomenti l’onorevole preopinante. Egli vi disse con molta ragione che questa verità, essendo sentita quasi istintivamente dall’universalità degli italiani, essendo proclamata fuori d’Italia da tutti coloro che giudicano delle cose d’Italia con imparzialità ed amore, non ha d’uopo di dimostrazione, è affermata dal senso comune della nazione.
Tuttavia, o signori, si può dare di questa verità una dimostrazione assai semplice. L’Italia ha ancor molto da fare per costituirsi in modo definitivo, per sciogliere tutti i gravi problemi che la sua unificazione suscita, per abbattere tutti gli ostacoli che antiche istituzioni, tradizioni secolari oppongono a questa grande impresa; ora, o signori, perché quest’opera possa compiersi conviene che non vi siano cause di dissidi, di lotte. Ma, finché la questione della capitale non sarà definita, vi sarà sempre motivo di dispareri e di discordie tra le varie parti d’Italia.
La scelta della capitale è determinata da grandi ragioni morali. È il sentimento dei popoli quello che decide le questioni ad essa relative.
Ora, o signori, in Roma concorrono tutte le circostanze storiche, intellettuali, morali, che devono determinare le condizioni della capitale di un grande Stato. Roma è la sola città d’Italia che non abbia memorie esclusivamente municipali; tutta la storia di Roma dal tempo dei Cesari al giorno d’oggi è la storia di una città la cui importanza si estende infinitamente al di là del suo territorio, di una città, cioè, destinata ad essere la capitale di un grande Stato. Convinto, profondamente convinto di questa verità, io mi credo in obbligo di proclamarlo nel modo più solenne davanti a voi, davanti alla nazione, e mi tengo in obbligo di fare in questa circostanza appello al patriottismo di tutti i cittadini d’Italia e dei rappresentanti delle più illustri sue città, onde cessi ogni discussione in proposito, affinché noi possiamo dichiarare all’Europa, affinché chi ha l’onore di rappresentare questo paese a fronte delle estere potenze possa dire: la necessità di avere Roma per capitale è riconosciuta e proclamata dall’intiera nazione. Io credo di avere qualche titolo a poter fare quest’appello a coloro che, per ragioni che io rispetto, dissentissero da me su questo punto; giacché, o signori , non volendo fare innanzi a voi sfoggio di spartani sentimenti, io lo dico schiettamente: sarà per me un gran dolore il dover dichiarare alla mia città natia che essa deve rinunciare risolutamente, definitivamente ad ogni speranza di conservare nel suo seno la sede del Governo. Sì, o signori, per quanto personalmente mi concerne, gli è con dolore che io vado a Roma. Avendo io indole poco artistica, sono persuaso che in mezzo ai più splendidi monumenti di Roma antica e di Roma moderna, io rimpiangerò le severe e poco poetiche vie della mia terra natale. Ma egli è con fiducia, o signori, che io affermo questa verità. Conoscendo l’indole de’ miei concittadini; sapendo per prova come essi furono sempre disposti a fare i maggiori sacrifizi per la sacra causa d’Italia; sapendo come essi fossero rassegnati a vedere la loro città invasa dal nemico, e pronti a fare energica difesa.
Noi dobbiamo andare a Roma, ma a due condizioni. Noi dobbiamo andarvi di concerto con la Francia; inoltre senza che la riunione di questa città al resto d’Italia possa essere interpretata dalla gran massa dei cattolici d’Italia e fuori d’Italia come il segnale della servitù della Chiesa. Noi dobbiamo, cioè, andare a Roma, senza che perciò l’indipendenza vera del pontefice venga a menomarsi. Noi dobbiamo andare a Roma, senza che l’autorità civile estenda il suo potere all’ordine spirituale.
Ecco le due condizioni che debbono verificarsi perché noi possiamo andar a Roma, senza porre in pericolo le sorti d’Italia.
Quanto alla prima, vi disse già l’onorevole deputato Audinot che sarebbe follia il pensare, nelle attuali condizioni d’Europa, di voler andare a Roma malgrado l’opposizione della Francia.
Ma dirò di più: quando anche per eventi, che credo non siano probabili e nemmeno possibili, la Francia si trovasse ridotta in condizioni tali da non potere materialmente opporsi alla nostra andata a Roma, noi non dovremmo tuttavia compiere l’unione di essa al resto d’Italia, se ciò dovesse recare grave danno ai nostri alleati.
Altri fautori del potere temporale più moderati, più benevoli, dicono: ma è egli impossibile che il pontefice con riforme, con concessioni faccia scomparire l’antagonismo che o sovra accennato, possa conciliarsi quel popolo sul quale impera? Come mai i principii che assicurano la pace e la tranquillità delle altre parti d’Europa, applicati nelle Romagne, nell’Umbria e nelle Marche non produrranno gli stessi effetti? Ed essi insistono presso il pontefice, onde sia largo di riforme ai suoi popoli, né si sgomentano delle ripulse, ma tornano a chiedere concessioni e riforme.
Questi, signori, sono in un assoluto errore; chiggono al pontefice quello che il pontefice non può dare, perché in lui si confondono due nature diverse, quella di capo della Chiesa è quella di sovrano civile; ma si confondono in modo che la qualità di capo della Chiesa deve prevalere a quella di sovrano civile. Ed infatti, se il dominio temporale è stato dato al pontefice per assicurare la indipendenza della sua autorità spirituale, evidentemente il Papa deve sacrificare le condizioni riguardanti il potere temporale a quelle relative agli interessi della Chiesa.
Ora, quando domandate al pontefice di fare alla società civile le concessioni richieste dalla natura dei tempi e dal progresso della civiltà, ma che si trovano in opposizione ai precetti positivi della religione, di cui egli è sovrano pontefice, voi gli chiedete cosa che egli non può, non deve fare. Se assentisse a siffatta domanda, egli tradirebbe i suoi doveri come pontefice, cesserebbe di essere rispettato come capo del cattolicesimo.
L’Europa da 20 anni si strugge per trovar modo di operare una riforma nello stato ottomano. Non v’è arte diplomatica, non v’é influenza che non siasi esercitata in questo senso; e, per essere giusto, dirò che molti, forse la maggior parte dei ministri ottomani sono dispostissimi ad operare queste mutazioni, a conciliare il vivere civile con le forme del loro governo. Io ho avuto l’onore di conoscere parecchi de’ più distinti uomini di Stato di quel paese, i quali mi hanno tutti maravigliato per la larghezza delle loro vedute, pel liberalismo de’ loro principii; eppure finora l’opera loro è rimasta quasi sterile; e perché, o signori? Perché a Costantinopoli, come a Roma, il potere spirituale e temporale sono confusi nelle stesse mani. Quindi, o signori, io credo non esservi verità più dimostrata di quella che ogni riforma nel governo temporale è impossibile. Ciò essendo, lo stato attuale di antagonismo tra la popolazione e il Governo non può cessare; e, non potendo essere rimosso, egli è evidente che il potere temporale non è una garanzia di indipendenza pel pontefice.
Se il potere temporale non assicura l’indipendenza della Chiesa, con quali mezzi, mi si dirà, volete voi assicurarla? Ciò vi è stato detto dall’onorevole Audionot in questa tornata prima di me e me ne compiaccio. Noi riteniamo che l’indipendenza del pontefice, la sua dignità e l’indipendenza della Chiesa possono tutelarsi mercé la separazione dei due poteri, mercé la proclamazione del principio di libertà applicato lealmente, largamente ai rapporti della società civile colla religiosa.
Egli è evidente, o signori, che ove questa separazione sia operata in modo chiaro, definito e indistruttibile; quando questa libertà della Chiesa sia stabilita, l’indipendenza del papato sarà su terreno ben più solido che non lo sia al presente. Né solo la sua indipendenza verrà meglio assicurata, ma la sua autorità diverrà più efficace, perché non sarà più vincolata dai molteplici concordati, da tutti quei patti che erano, e sono, una necessità finché il pontefice riunisce nelle sue mani, oltre alla potestà spirituale, l’autorità temporale. Tutte quelle armi, di cui deve munirsi il potere civile in Italia e fuori, diverranno inutili, quando il pontefice sarà ristretto al potere spirituale. Epperciò la sua autorità, lungi dall’essere menomata, verrà a crescere assai più nella sfera che sola le compete.
Ebbene, o signori, non perciò noi cesseremo dal proclamare altamente i principii che qui ora vi ho esposti, e che mi lusingo riceveranno da voi favorevole accoglienza; noi non cesseremo dal dire che, qualunque sia il modo con cui l’Italia giungerà alla città eterna, sia che vi giunga per accordo o senza, giunta a Roma, appena avrà dichiarato decaduto il potere temporale, essa proclamerà il principio della separazione, ed attuerà immediatamente il principio della libertà della Chiesa sulle basi più larghe. Quando noi avremo ciò operato; quando queste dottrine avranno ricevuto una solenne sanzione dal Parlamento nazionale; quando non sarà più lecito di porre in dubbio quali siano i veri sentimenti degl’Italiani; quando sarà chiaro al mondo che essi non sono ostili alla religione dei loro padri, ma anzi desiderano e vogliono conservare questa religione nel loro paese, che bramano assicurarle i mezzi di prosperare e di svilupparsi abbattendo un potere, il quale fu un ostacolo non solo alla riorganizzazione d’Italia, ma eziandio allo svolgimento del cattolicesimo, io porto speranza che la maggioranza della società cattolica assolverà gli italiani, e farà cadere su coloro a cui spetta la responsabilità delle conseguenze della lotta fatale che il pontefice volesse impegnare contro la nazione, in mezzo alla quale esso risiede.
Ma, o signori, Dio disperda il fatale augurio! a rischio di essere accusato di abbandonarmi ad utopie, io nutro fiducia che, quando la proclamazione dei principii, che ora ho fatta, e quando la consacrazione, che voi ne farete, saranno rese note al mondo, e giungeranno a Roma nelle aule del Vaticano, io nutro fiducia, dico, che quelle fibre italiane che il partito reazionario non ha ancora potuto svellere interamente dall’animo di Pio IX, queste fibre vibreranno ancora, e si potrà compiere il più grande atto che popolo mai abbia compiuto. E così sarà dato alla stessa generazione di aver risuscitato una nazione, e d’aver fatto cosa più grande, più sublime ancora, cosa, la cui influenza è incalcolabile: d’avere cioè riconciliato il papato coll’autorità civile; di avere firmata la pace tra la Chiesa e lo Stato, tra lo spirito di religione ed i grandi principii della libertà.
Sì, io spero, o signori, che ci sarà dato di compiere questi due grandi atti, i quali certamente tramanderanno alle più lontane posterità la benemerenza della presente generazione italiana.
* Camera dei deputati 25 Marzo 1861. In risposta ad una interpellanza del deputato bolognese Rodolfo Audinot sulla questione romana.
Alcune brevissime considerazioni a margine di questo straordinario discorso
la cui importanza va al di là della, pur fondamentale “questione romana” a 153 anni dall’annessione di Roma al Regno d’Italia. Perché, tra le righe, il Conte di Cavour fa delle affermazioni di una evidente attualità. Innanzitutto, l’ambizione, ripresa più volte dall’attuale Presidente del consiglio, Giorgia Meloni, di fare dell’Italia un “grande Stato”, come la sua storia impone, come patria dei diritti individuali e collettivi, trasferiti dallo Statuto Albertino alla vigente Costituzione. Poi, la consapevolezza che l’unificazione nazionale ha suscitato “gravi problemi” in ragione della permanenza di “ostacoli che antiche istituzioni, tradizioni secolari oppongono” alla “grande impresa dell’unificazione”. Questioni di cui siamo tutti testimoni mentre si discute di autonomia differenziata, in una intollerabile confusione di lingue, tra rigurgiti neoborbonici ed esternazioni di grettezza antitaliana emersi nel recente incontro di Pontida, non condivisi dalla dirigenza della Lega, ma gravi perché provenienti dalla “pancia” di taluni incolti padani.
Infine, una lezione di politica estera, che, immagino, piacerà al Vicepresidente del Consiglio e Ministro degli affari esteri, Antonio Tajani, a proposito dei rapporti con la Francia protettrice dello Stato della Chiesa. Quando Cavour dice che “sarebbe follia il pensare, nelle attuali condizioni d’Europa, di voler andare a Roma malgrado l’opposizione della Francia”. Aggiungendo che anche se la Francia “si trovasse ridotta in condizioni tali da non potere materialmente opporsi alla nostra andata a Roma, noi non dovremmo tuttavia compiere l’unione di essa al resto d’Italia, se ciò dovesse recare grave danno ai nostri alleati”.
Ora con la Francia sussistono motivi di tensione, per certe disinvolte incursioni di imprese l’oltralpe nel tessuto industriale italiano o per la politica seguita nel ricollocamento dei migranti. Ma l’invito ad operare nel concerto europeo mi sembra attualissimo. A condizione, ovviamente, che nei rapporti con i partners europei l’Italia assuma realmente l’atteggiamento di un “grande stato”. Quello che sa esprimere chi ha la “forza dei nervi saldi”, per riprendere un celebre slogan pubblicitario.
Ne parleremo ancora
Salvatore Sfrecola