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Le norme “della politica” ed il ruolo dei giudici

di Salvatore Sfrecola

Nessuno può dubitare che io abbia guardato, e continui a guardare, con simpatia il governo presieduto da Giorgia Meloni. Più per la fiducia nella sua volontà di fare che per la condivisione della scelta di alcuni ministri e, soprattutto, di molti dei loro collaboratori. Quindi l’Onorevole Meloni mi consentirà di svolgere alcune considerazioni in ordine alla pronuncia del giudice di Catania, relativamente all’applicazione del decreto sugli immigrati, che occupa le prime pagine di tutti i giornali, non per entrare nel merito del documento ma per ribadire una mia, ma non personale, convinzione che i rapporti fra il Governo e la Magistratura debbano essere improntati a reciproco rispetto, come richiede l’ordinamento costituzionale.

Non c’è dubbio, perché accade in tutti i paesi del mondo, che spesso le sentenze dei giudici non siano gradite al potere politico. È quasi fisiologico. Per la diversità dei ruoli, quello del Governo, che vuole perseguire gli obiettivi del proprio indirizzo politico e quello dei giudici che devono presidiare l’applicazione corretta della normativa, se del caso rilevandone la contrarietà ai princìpi della Costituzione. Per cui accade che se, nel fare applicazione di una legge dal rilevante carattere politico, un giudice la ritenga in contrasto con la Costituzione, il Governo ed i partiti che lo sostengono tendono a dire che quel giudice ha così deciso perché condivide le opinioni della parte avversa. Di più, spesso si sente dire che quel giudice nega il primato della legge, alla quale egli è soggetto (art. 101, Cost.), violando un principio fondamentale della democrazia, quello che la sovranità appartiene al popolo che la esercita attraverso le scelte del Parlamento. È quella che il potere politico ama definire “invasione di campo”.

È una impostazione, a mio giudizio, in ogni caso, sbagliata. In primo luogo perché il potere politico può legittimamente sostenere, anche per informarne l’opinione pubblica, di considerare sbagliata l’interpretazione che i giudici hanno dato ad una norma, tanto da preannunciare un ricorso ai successivi gradi di giurisdizione. Questa è la formula corretta. Sbagliato, invece, è attribuire ai giudici una sorta di responsabilità politica sostenendo che essi sono contrari alla norma per motivi ideologici, in tal modo commettendo un doppio errore, quello di offrire all’opinione pubblica una visione sbagliata della realtà. In primo luogo, perché il potere giudiziario è allo stato diffuso e non si potrà mai sostenere che “i giudici” o “la magistratura” siano espressione di una parte politica, perché inevitabilmente i magistrati faranno corpo e si schiereranno a favore del giudice che viene aggredito, anche quando la maggioranza di loro dovesse essere di contrario avviso rispetto alla pronuncia oggetto delle critiche. In secondo luogo, questo modo di affrontare il rapporto con la magistratura ha l’effetto, non trascurabile sul piano politico, di dare argomenti all’opposizione che, nell’attualità, non trova niente di meglio per ricompattarsi, assumere visibilità, facendo dimenticare l’assoluta inconsistenza del suo ruolo.

Infine, non va trascurato, come insegna l’esperienza, che spesso una pronuncia dei giudici mette in evidenza un errore nella formulazione della norma, sia con riferimento al diritto nazionale che a quello comunitario, in tal modo esponendo lo Stato italiano ad eventuali azioni giudiziarie di fronte alla Corte di giustizia o alla Corte dei diritti dell’uomo.

Politica significa anche capacità di relazionarsi con le altre istituzioni dello Stato, tenendo presente che, contrariamente ad una narrazione sviluppata nel corso del tempo da alcuni ambienti politici, i giudici nella loro stragrande maggioranza, parliamo di migliaia di persone, sono dal punto di vista della loro formazione dei conservatori perché hanno il compito di mantenere l’ordinamento giuridico. Questo non esclude ovviamente che vi siano giudici che, mi auguro in buona fede, hanno fatto proprie concezioni del diritto che si basano su una interpretazione “creativa”, un tema sul quale ha scritto un bel saggio Giuseppe Valditara (“Giudici e legge”, Pagine editore), segnalando come alcuni ambienti della magistratura neghino di fatto la certezza del diritto perché affidano l’interpretazione della legge alla sensibilità del singolo giudice, in contrasto con l’articolo 12 delle “Disposizioni sulla legge in generale”, secondo il quale “nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore”. Ritengono, invece, alcuni che anche la Costituzione dovrebbe essere interpretata sulla base del sentire del popolo in un determinato momento storico, quello che Valditara definisce un “principio eversivo” dell’ordinamento che lo induce a criticare le tesi di Paolo Grossi, già Presidente della Corte costituzionale, il quale ritiene che “il referente necessario del diritto è soltanto la società”, con quali effetti sulla certezza del diritto ognuno facilmente comprende. Infatti scrive “l’interprete recupera il suo carattere attivo, specchio e coscienza di esigenze che possono non essere identiche a quelle pressanti al momento della produzione della norma”. Insomma, la norma eventualmente rispondente ad esigenze non più attuali si piega al giudizio del momento e del singolo magistrato. Ma, poi, chi è legittimato a dire che la norma non è più attuale? Se il Parlamento non la modifica si deve presumere che la ritenga ancora rispondente alle finalità originarie.

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