di Salvatore Sfrecola
Il Fascismo, ha scritto Benedetto Croce, è stata una parentesi nella storia d’Italia. Aperta quando la classe politica liberale era in crisi profonda all’indomani della Prima Guerra Mondiale, chiusa con la fine tragica della guerra e l’avvento della democrazia. Del suo inventore, Benito Mussolini, si può dire con le parole che il Generale de Gaulle ha scritto di Napoleone: ha lasciato la Francia più piccola di come l’aveva trovata. Ugualmente con la fine del Fascismo l’Italia si è ritrovata con un territorio ridotto rispetto al 1922. Senza l’Istria, la Dalmazia, Briga e Tenda al confine francese, Rodi e le isole del Dodecaneso, l’Eritrea, la Somalia e l’Etiopia. I territori dell’Africa molto probabilmente li avremmo dovuti lasciare, come è accaduto per altre potenze coloniali. Ma forse li avremmo associati assai meglio di quello che ha saputo fare la Francia nei territori dell’Africa centrale e settentrionale.
Insomma, il Fascismo è finito. Ha fatto alcune cose buone, come ha ricordato Alessandro Barbero, storico e divulgatore straordinario di eventi occorsi nei secoli, perché sarebbe assurdo che, avendo governato per vent’anni, non avesse fatto qualcosa di buono. Anche se prevale nell’opinione dei più il ricordo delle decisioni fortemente sbagliate, le leggi razziali, imposte agli italiani, e la guerra, anch’essa non voluta. Eppure, di Fascismo si parla in continuazione soprattutto, come osserva Daniele Capezzone nel suo ultimo libro (“E basta con ‘sto Fascismo”, Piemme, Milano, 2023, pp. 252, € 18,90), in concomitanza di un evento elettorale, evidentemente al solo scopo di spaventare gli italiani, come ha sempre sottolineato Giorgia Meloni che di queste campagne “antifasciste” dovrebbe essere naturalmente la vittima. È così che nelle trasmissioni televisive le viene impedito di esporre quali sono le idee programmatiche di Fratelli d’Italia dovendosi, per gran parte del tempo, difendere dicendo una cosa ovvia; lei col Fascismo, anche per motivi anagrafici, non ha niente a che fare ed essendo presente in Parlamento con un partito ampiamente votato dagli italiani è certamente espressione della democrazia del nostro tempo. Di Fascismo o meglio di mentalità fascista forse dovrebbero essere a questo punto accusati coloro i quali aggrediscono ad ogni piè sospinto gli avversari chiamandoli fascisti anche quando ideologicamente lontanissimi da quella storia politica. Come Daniele Capezzone il quale, con alle spalle un’esperienza radicale e in Forza Italia, per quello che scrive come giornalista, prima de La Verità e oggi come direttore editoriale di Libero, partecipa al dibattito politico da autentico democratico, espressione di quella cultura della libertà che in Italia in molti ambienti è stato sempre difficile capire e praticare.
Il fascismo, si legge del risvolto della copertina del libro di Capezzone, “è la vera e propria ossessione della sinistra. Non ci sono una sola campagna elettorale né un solo momento di dibattito pubblico che restino esenti da questo logoro evergreen. Ogni episodio, non importa se vero, verosimile, presunto, inventato, che possa essere funzionale a infilare a forza una metaforica camicia nera alla destra è immediatamente esaltato e ingigantito a sinistra. Ma quando invece (è accaduto proprio a Capezzone all’università La Sapienza di Roma) sono i collettivi di sinistra a tentare di conculcare con la violenza la libertà di parola altrui, allora scatta il riflesso di minimizzare-attenuare smorzare”.
Nell’incipit, l’Introduzione, Capezzone si rivolge ironicamente ai “cari compagni… lestissimi a rinnovare il guardaroba” che non hanno, invece, cambiato mentalità, “che al fondo è rimasta la stessa, tenacemente e direi istintivamente ostile all’individuo, al lavoratore autonomo, alla libera intrapresa, e soprattutto al dissenso e al dissenziente. Diciamocelo: la libertà – specie quella degli altri – non vi è mai piaciuta”.
È una indubbia verità. Volenti o nolenti gli italiani per troppo tempo hanno indossato la camicia nera. Vi credessero o no, erano inseriti nel regime che, accettato da ampi settori liberali e cattolici nell’immediato primo dopoguerra in crisi economica e sociale. Quando la disoccupazione dovuta alla riconversione dell’industria, la paura del bolscevismo, che aveva trionfato a Mosca, la penetrazione in ambienti militari l’ignavia di liberali, popolari e socialisti costrinsero il re Vittorio Emanuele III, che era stato fin dai primi anni del suo regno il fautore della svolta liberale, ad accettare il governo Mussolini. Incuranti i più del fatto che il Governo, divenuto presto regime, nel corso degli anni avrebbe, con azione costante, limitato le libertà statutarie delle quali gli italiani poco si dimostrarono attenti, obnubilati dalla propaganda di regime, dall’esaltazione dell’Impero, conquistato con grandi difficoltà, fino ad accettare le infami leggi razziali e ad accogliere in modo apparentemente entusiastico, ma con assoluta incoscienza, l’ingresso in una guerra alla quale non avevamo interesse a partecipare e che si rivelerà una autentica tragedia sul fronte militare e civile.
Ma torniamo al libro. L’amore per la storia e la passione politica mi hanno preso come sempre alla lettura dei libri di Capezzone, come all’ascolto delle sue “orazioni” televisive contro il politically correct con il quale le sinistre variamente denominate cercano di confondere le idee agli italiani sempre più, sondaggi alla mano, scafati, impermeabili ad una narrazione degli eventi che si dimostra palesemente in contrasto con la realtà che la gente sperimenta ogni giorno. Come la questione dell’immigrazione, ipocritamente condita delle storie tristi che naturalmente si accompagnano alle avventurose traversate del Mediterraneo con mezzi assolutamente inadeguati anche a percorrere un singolo miglio nautico, anche se quelle barchette non contenessero un inverosimile numero di disperati, reclutati dalla malavita e mandati allo sbaraglio con la prospettiva di un miraggio che per la maggioranza di loro rimarrà comunque tale. Capezzone ne parla quasi quotidianamente a Quarta Repubblica, di Nicola Porro, a Diritto e rovescio, di Paolo Del Debbio, a Controcorrente, di Veronica Gentili, a Mattina 5, di Francesco Vecchi, e sempre manda in bestia gli interlocutori, del PD o dei 5 Stelle che parlano per slogan, senza riuscire a formulare una tese sostenibile, verificabile sulla base di dati certi. Sono trasmissioni che vivono sul contraddittorio tra i partecipanti, occasioni nelle quali, spiega Capezzone, “molte voci si sono levate per spiegare ai “ragazzi” ciò che avrebbero dovuto apprendere già alle elementari: e cioè che il diritto di parola altrui è sacro quanto il proprio”.
Con il linguaggio sempre efficace, dal tratto ironico, il libro scorre lungo il tempo per ricordare agli immemori episodi nei quali elementi della sinistra hanno manifestato tutta la loro intolleranza nei confronti delle idee che non condividono, in particolare per le espressioni della cultura liberale che evidentemente li manda in bestia perché sentono, e verificano sul piano elettorale, la crescente disaffezione del pubblico, soprattutto giovane, che sono in limitate minoranze faziose riescono a mobilitare. Così sfilano, oltre al caso già ricordato, dell’Università di Roma, anche la vicenda del liceo Michelangelo di Firenze dove studenti “fascisti” avrebbero pestato alcuni giovani di sinistra, una versione che, diffusa per giorni dai mezzi di informazione, si è rivelata, ad una più appropriata indagine, molto diversa. In realtà alcuni giovani di Azione studentesca, intenti a distribuire volantini, erano stati spintonati ed il loro materiale disperso. E avevano reagito come la giovane età suggerisce.
Insomma, sulla base di una serie di esempi che individuano le caratteristiche dell’“antifascismo perenne” Capezzone arriva alla conclusione che basta chiamare “fascismo” tutto quel che non piace ai nuovi autoproclamati partigiani che i sinistri delle varie obbedienze si sentono investiti di una missione, che con straordinaria improntitudine osano anche chiamare democratica, a difesa della democrazia e della Costituzione, in realtà irrispettosi dell’una e dell’altra.
L’analisi politica spazia dalle nomine che sono “lottizzazione” se vi provvede la Destra mentre sono espressione del “pluralismo” se è la Sinistra che occupa posti nei ministeri, nelle aziende pubbliche, nelle strutture della RAI, ad una critica serrata della scuola per “l’avvilente mediocrità del servizio”, che relega l’Italia agli ultimi posti in Europa perfino quanto alla comprensione dei testi. E si sentono ricorrenti propositi di smontare la riforma Gentile sostanzialmente seguita nelle migliori scuole straniere, come all’Eton College a Windsor, dove le materie curriculari sono quelle classiche, come il latino e il greco, senza trascurare diritto, economia e informatica. Ma di lì escono Primi ministri e ministri di Sua Maestà oltre ai grandi manager di stato e privati. Povera Italia! Da autentico liberale Capezzone vuole una scuola priva di ogni “intromissione ideologica” con la conseguenza di suggerire la scelta di “ritirare i finanziamenti pubblici a qualunque luogo o istituzione dove siano avvenute forme di censura”, in sostanza realizzando quello che si chiama defund censor: “togliere i fondi ai censori, agli imbavagliatori, a chi vuole precludere una discussione libera e aperta”.
Il libro è una miniera di informazioni, di riferimenti, di analisi, spesso formulate sulla base di esperienze maturate in Italia, come nella stagione del Covid, quando si è fatto largo uso dell’“arma della paura”. E si diffonde su una accurata analisi della politica, nel Partito Democratico e nel Centrodestra, il primo alla ricerca di un futuro, non avendo escluso neppure un ulteriore cambio del nome, e nella coalizione di governo in vista dell’incontro necessario tra liberali e conservatori, una strada “da battere con coraggio: meno tasse-meno sprechi-meno debito-meno pubblico”.
Infine, come combattere? Capezzone non ha dubbi: “servono freedom fighters sorridenti, non ideologici, non pallosi” perché “nella battaglia delle idee devi comunicare ed emozionare innanzitutto i princìpi (e la passione), non attraverso i dettagli”. Servono figure “superpop, intellettuali crossmediali del nostro tempo (e non di tempi passati e trapassati), gente capace di stare in uno studio televisivo come davanti alla telecamera di uno smartphone, di scrivere un editoriale in prima pagina ma pure di twittarne l’essenza, di usare con un filo di ribalda pirateria spazi finora egemonizzati dalla sinistra”. È quello che Lui sa fare egregiamente nelle trasmissioni televisive nelle quali è invitato per le idee che con coraggio manifesta e per la determinazione e l’ironia con la quale mette a posto i suoi contraddittori che appaiono sempre più piccoli e confusi.
E chiude con una valutazione positiva dell’opera di Giorgia Meloni, “politica accorta e sensibile… una leader che sembra non darsi l’obiettivo del galleggiamento, della gestione dell’esistente, dell’amministrazione del declino, ma quello di una possibile scossa psicologica. Solo il tempo potrà dirci se la leader di Fratelli d’Italia riuscirà in un’impresa oggettivamente titanica: ma la disposizione d’animo pare giusta e assolutamente da incoraggiare”. Questa parte del mondo, infatti, “porta in mano un testimone di valori luminosi. Sarà il caso di ricordarcene, e anche di sorridere un poco nell’affrontare le prossime sfide”.