sabato, Novembre 23, 2024
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Ancora impunità per chi, con “colpa grave”, danneggia i bilanci pubblici. Alla faccia del cittadino-contribuente

di Salvatore Sfrecola

Cambiano i governi dal giallo verde al giallo rosso al governo tecnico ed ora al governo politico di centrodestra, ma incapaci e disonesti trovano sempre nei palazzi del potere chi li difende. È nota la polemica suscitata dall’art. 21 del decreto-legge n. 76 del 2020 (Conte 1) che ha escluso la responsabilità per “danno erariale”, cioè per un pregiudizio recato alla finanza o al patrimonio dello Stato o di un ente pubblico, nei casi di “colpa grave”. Che identifica un profilo soggettivo che si spiega facilmente con le parole di un grande giurista romano, Ulpiano, il quale diceva che culpa lata est non intelligere quod omnes intelligunt. È un latino semplice ma lo traduco, visto il livello della nostra scuola: è colpa grave quella di chi commette un fatto dimostrando di non comprendere ciò che tutti comprendono, cioè con negligenza o imprudenza o imperizia ovvero per mancata osservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline. Di più, a segnalare la gravità della colpa sempre i romani dicevano che culpa lata, la colpa grave, dolo aequiparatur. Cioè l’intensità della colpa è tale che può essere equiparata al dolo, che si configura quando l’azione o l’omissione da cui discende il danno erariale è dall’agente preveduto e voluto come conseguenza della sua azione od omissione.

Ognuno comprende come mandare esenti da responsabilità coloro che hanno arrecato un pregiudizio finanziario o patrimoniale allo Stato o ad un ente pubblico è una gravissima lesione di un interesse generale dei cittadini-contribuenti alla corretta gestione della cosa pubblica, considerato che i bilanci sono alimentati dalle imposte che pagano i cittadini. Più esattamente, una parte dei cittadini, considerate le note dimensioni dell’evasione fiscale ed il fatto che oltre l’80% delle imposte è corrisposto da lavoratori dipendenti e pensionati. 

Questa disciplina, in gergo giornalistico “scudo erariale”, dettata dal Conte 1, conservata dal Conte 2 e poi dal governo Draghi ci si attendeva sarebbe stata eliminata da una maggioranza politica che si è presentata all’elettorato (ossia a gran parte di coloro che pagano le imposte) come argine all’illegalità. Invece, la norma è stata conservata, nonostante i giornali diano quotidianamente notizia di sprechi e corruzione. Anzi lo scudo erariale è stato reso permanente, con riferimento al personale dell’amministrazione finanziaria, dall’art. 4, comma 1, numero 4, lettera h), della legge delega per la riforma fiscale 9 agosto 2023, n. 111, che limita “la responsabilità nel giudizio amministrativo contabile dinanzi alla Corte dei conti alle sole condotte dolose”.

È noto che questa normativa è stata da parte della stampa, su input dei politici, giustificata col cosiddetto “timore della firma”, in ragione del quale i funzionari sarebbero frenati nell’assumere decisioni dalla preoccupazione di essere chiamati a rispondere dei loro atti dinanzi alla Corte dei conti, il giudice al quale è attribuita la giurisdizione in materia di responsabilità dei pubblici dipendenti.

Chi conosce le pubbliche amministrazioni sa che questo non è vero, che ogni giorno vengono adottati migliaia di provvedimenti, assistiti da pareri degli uffici legislativi o legali o da controlli preventivi, che tranquillizzano i funzionari. I funzionari capaci studiano le pratiche e firmano senza preoccupazione. Quel timore, invece, sentono coloro che occupano posti senza avere la specifica preparazione professionale, i tanti modesti cresciuti a seguito di passaggi di funzioni voluti dai sindacati o nominati dalla politica sulla base di quell’art. 19, comma 6, del decreto legislativo n. 165 del 2001 che, a leggerlo, sembra prevedere il reclutamento di eccellenze mentre nella realtà ha consentito l’arruolamento di portaborse e di modesti funzionari con niente più di una laurea, ma solo perché sul punto la Corte dei conti ha fatto una salutare barriera.

Sono pronto a mettere la mano sul fuoco che il Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, che ovviamente non può seguire tutto, soprattutto norme tecniche, non sa niente di questo ennesimo schiaffo non alla Corte dei conti, che pure meriterebbe rispetto per essere la più antica magistratura italiana, ma ai cittadini che potranno essere, nella loro qualità di contribuenti, soggetti agli effetti di errori indotti dalla trascuratezza che naturalmente deriva dalla sicurezza di non dover pagare in caso di gravi errori. Di più, la lotta all’evasione fiscale diventerebbe un miraggio. E già adesso, in pratica, la fa solamente la Guardia di Finanza.

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