di Salvatore Sfrecola
È il giorno triste della notizia della morte della piccola Indi Gregory alla quale sono stati tolti il supporti che la tenevano in vita, per ordine dei giudici del suo paese, a quanto pare preoccupati del costo delle terapie finora praticate alla bimba a fronte di una diagnosi dei medici di irreversibilità dello stato patologico di cui la piccola soffriva fin dalla nascita.
Immagino che, per i giudici di Sua Maestà, non sia stato un verdetto semplice, ancorché supportato dal giudizio dei medici, perché una vita che si spegne è sempre una sconfitta, soprattutto nel momento in cui una struttura ospedaliera italiana di eccellenza si era detta disponibile a sperimentare terapie idonee a tentare di contrastare la malattia in parte sconosciuta.
C’era stato anche un tentativo da parte del Governo italiano, attraverso la concessione della cittadinanza, di consentire un ripensamento giustificabile sulla base dell’ipotesi del trasferimento della piccola malata nell’ospedale romano Bambin Gesù. I giudici non hanno voluto. Ed immagino che li abbia guidati, da un lato, il parere dei medici sulla irreversibilità della patologia definita “incurabile”, e, dall’altro, l’orgoglio di non ammettere che in un altro paese c’era chi si era detto disponibile a curare, quindi a sostenere le spese, la sfida con la morte. E qui sono messe a confronto due concezioni della vita, evidentemente inconciliabili, quella utilitaristica, di chi non vuole provare una terapia costosa e dagli esiti incerti, pur in ragione di quella “missione” che dovrebbe guidare ogni medico, quella di tentare in ogni caso di individuare la via di una possibile guarigione e, dall’altra, una concezione cristiana, cattolica, che poggia sulla sacralità della vita, che non riesce a giustificare un possibile l’ausilio verso la fine. È la pietas che già a Roma esprime l’insieme dei doveri che l’uomo ha sia verso gli uomini sia verso gli dei e che in questo caso s’identifica con la religione (“est enim pietas iustitia adversus deos”, ha scritto Cicerone), la pietà dei cristiani. È, in fondo, anche l’idea che la scienza non sia in condizione di dare certezze assolute sulla incurabilità di uno stato patologico, come insegna l’esperienza.
Oggi, e nei prossimi giorni, leggeremo diverse valutazioni sulla morte della piccola inglese. Forse non arriveremo a delle conclusioni se non a sperimentare l’amarezza di non aver potuto tentare il tentabile.