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La violenza è sempre di una personalità malata

di Salvatore Sfrecola

La vicenda tragica di Giulia Cecchettin, che ha colpito l’intera Nazione, tenuta in ansia per giorni alla notizia della scomparsa, prima nel dubbio dell’esito finale, poi addolorata e indignata per le informazioni sull’aggressione, l’uccisione e l’abbandono del corpo martoriato della povera ragazza, ha provocato, come è logico che fosse, commenti di vario tenore. Molti, troppi, impregnati di politica, alla ricerca delle colpe da addebitare alla società, alle famiglie, alla scuola, tutti con il tono di chi ritiene di avere il monopolio della verità, a volte con una buona dose di sociologica arroganza e di ipocrisia.

Mi inoltro, dunque, con i miei dubbi su un terreno scivoloso nel quale tuttavia sento il dovere di provare a dire qualcosa con riferimento alle tante affermazioni ascoltate e lette, tutte naturalmente portatrici di quel minimo di verità che non può non accompagnare l’osservazione di una vicenda obiettivamente complessa.

Credo, in primo luogo, si debba tenere un silenzioso rispetto nei confronti delle famiglie tragicamente coinvolte in questa vicenda, evitando di commentare le parole o i silenzi di chi è schiacciato dal dolore per la perdita della figlia e di chi è annichilito per il gesto crudele di un familiare ritenuto fino ad allora un “bravo ragazzo”. Nell’uno e nell’altro caso si affollano sentimenti e riflessioni “a caldo” che non è onesto commentare nello strazio del momento, soprattutto da quanti, psicologi, sociologi e giornalisti ne parlano comodamente seduti alla scrivania dei loro studi tra libri e riviste abituati a tracciare responsabilità personali e, più spesso, sociali sui tragici eventi che chiamiamo “femminicidi” perché la vittima è una donna in quanto tale, moglie, fidanzata, compagna, amante o amica di un uomo violento che l’ha uccisa.

E allora, nella concitata necessità di stare sul pezzo c’è chi propone l’introduzione nelle scuole dell’educazione all’affettività, alla quale aggiungono subdolamente riferimenti alle differenze di genere per aprire ad una varietà di personali concezioni degli “orientamenti” sessuali, così facendo di ogni erba un fascio, per lasciare le cose come stanno.

Vorrei, invece, suggerire qualche diversa riflessione. Partendo, ovviamente, dal ruolo della famiglia, la “società naturale”, come si legge nella Costituzione, dove si forma la personalità di ciascuno di noi. La famiglia, nella quale emergono naturalmente, sia pure in nuce, le differenze che ognuno di noi troverà, poi, nella società, a cominciare dal genere, il papà e la mamma, i fratelli e le sorelle, ognuno con una propria personalità, spesso confliggente ma stemperata dall’affetto che regola la vita familiare, la quale assicura una saggia convivenza a soggetti spesso assai diversi per attitudini personali. Ad esempio, nella famiglia definita da tempo con non celato disprezzo “patriarcale” i più grandi erano educati a rispettare, ad aiutare ed a difendere i più piccoli, i maschi a tutelare le femmine, a difenderle. Ricordo che quando, ragazzi, ci recavamo in gruppo in un locale da ballo (non si chiamavano ancora discoteche) le mamme chiedevano ai fratelli o agli amici di vigilare perché le ragazze non fossero infastidite da altri della comitiva o presenti sul posto. Per cui, nel caso una ragazza fosse stata invitata a ballare da una persona non gradita diceva “sono impegnata” e subito interveniva un amico opportunamente di scorta. E da giovani abbiamo imparato, leggendo le opere dei classici della letteratura ed i romanzi storici, che i cavalieri avevano il compito di proteggere i deboli, gli anziani e le donne, le quali apprezzavano molto queste attenzioni.

Non c’è dubbio che la prima educazione al rispetto dell’altro nasca in famiglia, in un contesto nel quale sono tradizionalmente emersi i ruoli del maschio e della femmina, che siamo stati abituati a considerare portatori di una medesima dignità personale pur con l’attitudine naturale, ad esempio, della donna alla maternità che, sappiamo dall’esperienza, non è incompatibile con l’impegno professionale, anche quando comporta sacrifici.

Ora non è dubbio che esaltando il ruolo della donna, anche nel suo impegno lavorativo, si è in taluni contesti contemporaneamente schiacciato il ruolo dell’uomo, complice certa pubblicità e certa moda, che hanno progressivamente puntato a colpire gli aspetti esteriori della mascolinità. Così le donne che pretendono che il loro uomo abbia il petto depilato, che ammettono anche, quando non chiedono, che si orni di orecchini, collanine e braccialetti, contribuiscono ad una omologazione che non esalta la donna ma, alla lunga, umilia l’uomo con l’effetto, in alcuni casi, di scatenare, in personalità fragili o malate, reazioni che possono sfociare in aggressività.

Così la ricerca della parità può divenire, in alcuni contesti, un incentivo ad una competizione dagli esiti laceranti, come nel caso, par di capire, di Giulia e Filippo, se è vero che le legittime ambizioni professionali della ragazza sarebbero state ritenute dal ragazzo come idonee ad allontanarla da lui e, probabilmente, ad assicurargli una primazia che nella coppia regolata dall’amore non ha senso, perché ognuno deve sentirsi orgoglioso dei successi dell’altro purché, naturalmente non siano utilizzati per umiliare il partner. Ricordo una mia amica che, incrinatosi il rapporto con il fidanzato, lo criticava con noi aggiungendo ad altre considerazioni negative “che vuoi, ha una sola laurea e scadente, legge poco o niente”.

Ora è evidente che evocare la “cultura del dominio e della sopraffazione maschile” è un ottimo, ma inutile, slogan politico, come quello della cultura del “patriarcato”. Siamo fuori dei binari di un approfondimento delle ragioni di un turpe delitto. Tutti hanno avuto esperienza nella loro vita di abbandoni e riconciliazioni, nessuno, normale, ha pensato mai di uccidere il partner. Chi lo ha fatto aveva tare mentali profonde che sono state sottovalutate dall’altro o dall’altra, per ingenuità o per amore. Incontrare in solitario l’ex, ad esempio, è stato sempre sconsigliato. Soprattutto quando è stato sperimentato, nel tempo della relazione, un comportamento aggressivo anche quando non apertamente violento. In questi casi non c’è “educazione all’affettività”, come qualcuno vorrebbe, che possa evitare un gesto irresponsabile di una persona evidentemente incapace di valutarne il senso e le conseguenze. Si tratta nella maggior parte dei casi di persone con gravissimi problemi personali. E se proprio vogliamo individuare sociologicamente una responsabilità fuori della persona dobbiamo considerare gli effetti della progressiva eclissi dei valori civili e spirituali resa evidente dalla perdita di autorevolezza dello Stato e, quindi, della sua capacità punitiva, massimamente sentita nella scuola, come apprendiamo quotidianamente dalla reazione degli studenti e delle loro famiglie ad un voto negativo o ad un rimprovero.

Insomma, lasciamo da parte per una volta il desiderio di fare comunque politica di basso conio sfruttando una tragedia come quella di Giulia e Filippo e ripartiamo dal rispetto delle persone, come quando si diceva che la donna non si tocca neppure con un fiore, valorizzando le differenze di genere che ci sono in natura, così come i ruoli diversi che si realizzano nella coppia ed il cui riconoscimento non umilia l’altro se il rapporto personale è regolato dall’affetto. Il rispetto s’impara dall’esempio, in famiglia, nella suola, nei posti di lavoro. L’affetto, poi, l’amore è un sentimento che, se autentico, include il rispetto dell’altro, delle sue idee, delle sue abitudini, delle sue aspirazioni. E accetta che un rapporto possa incrinarsi e chiudersi.

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