di Salvatore Sfrecola
La vicenda della disciplina delle pensioni dei medici, che si volevano diminuire per i soggetti che hanno prestato servizio nel periodo compreso tra il 1981 ed il 1995 sulla base di un diverso calcolo di quegli anni, opportunamente corretta con l’impegno attivo della Presidente del Consiglio, è, tuttavia, un campanello d’allarme che non va trascurato. E dimostra che la classe politica non si è ancora persuasa che la disciplina delle pensioni deve corrispondere ad alcuni principi di giustizia. Innanzitutto, a quello che le promesse fatte con legge del Parlamento vanno rispettate, che i diritti acquisiti al patrimonio delle persone, sulla base delle norme che hanno indicato la misura dei prelievi sulle retribuzioni ai fini della determinazione dell’ammontare della pensione, non si toccano.
Si tratta dei cosiddetti “diritti quesiti”, quella categoria dei diritti, si legge su Wikipedia, “che una volta entrati nella sfera giuridica di un soggetto, sono immutabili. Tale condizione permane anche di fronte ad eventuali cambiamenti dell’ordinamento giuridico”. Lo ricorda Mauro Vaglio, già Presidente dell’Ordine degli Avvocati di Roma, nella presentazione di uno studio di Valentino De Nardo, Presidente di Sezione della Corte di Cassazione, “I diritti quesiti per una democrazia compiuta”, pubblicato da Nuova Editrice Universitaria, che riprende i temi trattati dallo stesso magistrato in occasione di un Convegno di studi tenutosi nell’Aula Avvocati del Consiglio dell’Ordine, nel Palazzo di Giustizia di piazza Cavour.
La pensione, scrive De Nardo, “è un “diritto quesito” (ed anzi ne è uno dei suoi maggiori esempi), perché si basa su un patto fra il cittadino e lo Stato ormai concluso (assimilabile ad un contratto istantaneo a prestazioni corrispettive), in cui le prestazioni delle parti sono state già prestabilite in modo definitivo, compresa la futura rivalutazione monetaria dell’assegno pensionistico, essendo la sola controprestazione dello Stato rateizzata e differita nel tempo, e nessuna norma costituzionale prevede che l’importo pattuito possa essere arbitrariamente ridotto, salvo che per imposizione fiscale personale generale, come qualunque altra fonte di reddito personale nel rispetto dei criteri costituzionali di universalità e di progressività dell’imposta”. Quindi, la pensione è un diritto “inviolabile”, con la conseguenza che se lo Stato ha fatto male i conti deve comunque far fronte agli impegni legislativamente assunti.
Sembra facile osservare in premessa che coloro i quali nei partiti ed al Governo parlano di interventi strutturali a fini di giustizia tra i lavoratori e tra le generazioni sono una minoranza di privilegiati, il cui unico lavoro è stato spesso quello di fare politica e di godere di elevate retribuzioni e di non pochi benefit, compresi i vitalizi generosamente calcolati sui tempi dell’esercizio della funzione e con altrettanta magnanimità riconosciuti al coniuge (o al soggetto che aveva contratto con il defunto un’unione civile), ai figli, nonché ai nipoti minori (se erano a carico del nonno o nonna defunto), e, in mancanza, ai genitori e (mancando anche questi ultimi) ai fratelli.
È un terreno politicamente minato. Soprattutto perché sul tema si sono dette tante inesattezze, sulla base di calcoli incompleti, il più delle volte senza considerare gli effetti reali dei prelievi effettuati sulle retribuzioni, delle pensioni erogate e delle imposte corrisposte dai titolari delle pensioni medie ed elevate. Di tutto questo si parla, con dovizia di particolari, in un documentato studio di Alberto Brambilla, “Le scomode verità su tasse, pensioni, sanità e lavoro” (Solferino Editore, Milano, 2020, pp. 296, € 16,50). In particolare nel paragrafo “la vera spesa per le pensioni”, dove quel noto studioso, docente universitario, editorialista e Presidente del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali, spiega che la spesa, certamente “alta”, se riclassificata, “cioè supportata da contributi realmente versati, anche se in taluni casi insufficienti, è al di sotto della media UE”. Con la precisazione che “nel calcolo del disavanzo, per onestà bisogna sottrarre dalle entrate contributive i trasferimenti a carico di Gias [Gestione interventi assistenziali, Inps, n.d.A.] e Gestione prestazioni temporanee (prevalentemente per le contribuzioni figurative), cosicché il conteggio del disavanzo si riduce ulteriormente. Va, inoltre, considerato che le uscite effettive dello Stato sono molto più basse di quelle dichiarate e che, in definitiva, “uscite ed entrate, al lordo dell’Irpef, si compensano, e sono una mera partita di giro senza alcun esborso da parte dello Stato”. Inoltre, quanto alla ripartizione del carico fiscale per gestione, i dipendenti pubblici, che rappresentano circa il 17% del totale dei pensionati, pagano circa la metà dell’Irpef ordinaria e addizionale”.
E c’è una chicca importante che va segnalata a quelli che parlano di pensioni d’oro o elevate. Il grosso dell’imposizione fiscale (oltre 36%) “grava su uno sparuto numero di circa un milione di pensionati e a 28.000 di essi, quelli con le pensioni lorde sopra i 100.000 euro, i gialloverdi hanno tagliato arbitrariamente, violentemente senza alcuna giustificazione le prestazioni”. In sostanza gran parte dell’onere fiscale sulle pensioni grava su pochi pensionati e in particolare su quelli che hanno pensione sopra i 3.050 euro lordi al mese “il che dovrebbe far molto riflettere tutti coloro che propongono in modo acritico sia aumenti delle pensioni basse sia tagli o mancate indicizzazione all’inflazione per le pensioni medio alte. Infatti, mentre questi ultimi con le loro imposte e i contributi si sono pagati quasi integralmente la pensione, la maggior parte dei pensionati con pensioni integrate, da lavoratori attivi di tasse ne hanno pagate molto poche o addirittura nulla”. Brambilla aggiunge che “il fatto che il 50 per cento dei pensionati sia assistito denota un elevatissimo livello di evasione fiscale, soprattutto tra alcune categorie e in alcune aree del paese, e una incapacità dello Stato di governare il fenomeno”.
Alla luce di questi elementi, che non sono illazioni ma desunti dai bilanci, appare azzardata ogni ipotesi di riforma strutturale che non ne tenga conto. In particolare, lo affidiamo alla saggia prudenza del Presidente del Consiglio, costretta a fare affidamento su opinioni e indicazioni più ideologiche, più esattamente demagogiche, che ancorate alla realtà. “A differenza di quanto fatto finora, noi sappiamo – ha affermato la Presidente Meloni – che questa Nazione ha bisogno sul tema delle pensioni di un intervento strutturale e non di misure estemporanee e, infatti, tra i nostri obiettivi c’è anche quello di procedere nell’arco della legislatura a una riforma adeguata, strutturale, per dare ai cittadini le certezze dovute sul diritto di accesso alla pensione secondo il principio di equità tra i lavoratori e tra le generazioni”.
Concetti assolutamente condivisibili. Ma temiamo che si faccia confusione tra diritti, derivanti dai prelievi obbligatori sulle retribuzioni con predeterminati effetti sulla misura delle pensioni, e le regole della fiscalità generale alla quale è affidato, appunto, il compito di attuare politiche perequative. In sostanza, chi ha visto nel corso del servizio attivo prelevare dalla sua retribuzione il contributo pensionistico deve sapere, una volta collocato in pensione, qual è la sua pensione essendo per il soggetto interessato del tutto irrilevante che le somme prelevate lo Stato le utilizzi per altre finalità, estranee alla previdenza. E considerato che, secondo valutazioni attuariali, se le somme prelevate a titolo di contributo pensionistico fossero state consegnate ad una compagnia di assicurazione la pensione sarebbe stata di gran lunga superiore. Il che la dice lunga sulla capacità dei politici e dei governanti che hanno pilotato negli anni la barca della previdenza.