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Vincenzo Cuoco (1770-1823)

di Gianluigi Chiaserotti

Cade il 14 dicembre il secondo centenario della morte dello storico e scrittore Vincenzo Cuoco, che era nato Civita Campomarano (attualmente in provincia di Campobasso) il giorno 1 ottobre 1770, figlio di un avvocato e studioso di economia, appartenente ad una famiglia della locale borghesia di provincia.

Recatosi a Napoli nel 1787, si dedicò agli studi letterari, filosofici ed economici.

Pur non aderendo in pieno alle idealità che promossero la rivoluzione del 1799, tuttavia, solo per aver svolto una minima attività nel corso del periodo repubblicano, fu condannato (24 aprile 1800) alla pena dell’esilio ed alla confisca dei beni.

Il Nostro fu esule a Marsiglia ed a Parigi per poi stabilirsi a Milano, dove, nel 1804, fondò il “Giornale italiano”, in cui agitò i problemi concernenti la formazione di una certa coscienza nazionale, dando un’impronta economica di rilievo al periodico e svolgendo una vivace attività pubblicistica, che proseguirà anche a Napoli con la sua collaborazione al “Monitore delle Sicilie”.

Nel 1806, Vincenzo Cuoco, tornò a Napoli dove ebbe alte cariche, che gli furono conservate anche sotto il restaurato Regno borbonico.

Fu sostanzialmente antilluminista e si pone, col suo “Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799”, (1801; II ed. 1806), sul piano della polemica antirivoluzionaria che negli anni immediatamente precedenti avevano perseguito Edmund Burke (1730-1797) nel Regno Unito e Joseph-Marie de Maistre (1753-1821) in Francia. Il Cuoco sostiene, senza dubbio, il richiamo e la difesa della tradizione di fronte all’imperante giacobinismo dei rivoluzionari che si traduce in una critica totale e nel rifiuto del razionalismo illuminista, tacciato di astrattezza.

A principi e leggi validi in ogni tempo ed in ogni luogo, il Nostro contrappone l’esigenza di far leva – e ciò per evitare che la desiderata rivoluzione non sia “passiva”, come risultò quella napoletana del 1799, perché astrattamente modellata sulla francese – su quei motivi della tradizione morale e politica di cui si nutre la vita del paese.

Tradizionalismo quindi quello del Cuoco, che si vena di esigenze di individualismo nazionale (particolarmente forti nel suo “Platone in Italia”, 1804-06, ispirato al vichiano “De antiquissima Italorum sapientia” e quindi al vichianesimo napoletano dei primi anni del secolo XIX), e denuncia, nella sua considerazione positiva del passato e nell’affermazione implicita della continuità della Storia, presentimenti storici.

Nel “Rapporto al re G. Murat per l’organizzazione della Pubblica Istruzione”, presentato dal Cuoco nel 1809 alla relativa commissione, e più volte ritoccato dall’autore, egli proponeva un maggiore impulso all’istruzione popolare e un orientamento più liberale della scuola. Infatti il Nostro ricopriva importanti incarichi pubblici, prima come Consigliere di Cassazione e poi Direttore del Tesoro, dove si distinse inoltre come uno dei più importanti consiglieri del governo di Gioacchino Murat (1767-1815).

Dal 1810 ebbe l’incarico di Capo del Consiglio Provinciale del Molise e, durante la durata di tale impiego, scrisse, nel 1812, “Viaggio in Molise”, opera storico-descrittiva sulla sua regione natale a cui restò legato grazie anche alla stretta parentela con la famiglia Pepe (Gabriele Pepe), presso la quale si conservano ancora suoi scritti e ritratti.

Gli ultimi suoi anni furono funestati dalla follia, che lo colpì a partire dal 1816 (forse anche a causa del travaglio interiore scatenato dalla Restaurazione), spingendolo alla distruzione di molti suoi manoscritti, rimasti dunque inediti, e costringendolo a ridurre progressivamente le sue attività sino alla morte, avvenuta, come scrivevo all’inizio, a Napoli il 14 dicembre1823, duecento anni fa, per le conseguenze di una frattura del femore, riportata in seguito a una caduta.

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