di Salvatore Sfrecola
“Resistere, resistere, resistere”. Marcello Degni, magistrato della Corte dei conti nominato dal Governo su proposta dell’allora Presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, fa ricorso ad una nota espressione del Procuratore della Repubblica di Milano, Francesco Saverio Borrelli, critica verso alcune iniziative del Governo Berlusconi in materia di giustizia. Il dottor Degni tenta in tal modo di giustificare l’impropria esternazione con la quale si è schierato apertamente a fianco dell’opposizione, che avrebbe desiderato ricorresse all’ostruzionismo parlamentare con possibile rinvio della decisione finale sul bilancio dello Stato, in modo da provocare il ricorso all’esercizio provvisorio per l’anno 2024.
Deve aver sentito un fremito d’orgoglio il Nostro nel consegnare ad internet i suoi post, tanto da venir meno al dovere di riservatezza, implicita nel suo ruolo di magistrato contabile e pertanto soggetto “soltanto alla legge”, come recita l’art. 101, comma 2, della Costituzione. Probabilmente deve essersi convinto che gli fosse richiesto di contribuire a salvare la Patria in pericolo a causa della decisione della maggioranza di contingentare i tempi della discussione parlamentare. Comportamento non nuovo, per la verità, cui hanno fatto ricorso i governi di tutti gli schieramenti, abituati da tempo a limitare la funzione emendativa delle Camere ponendo una “questione di fiducia”. Ma in quei casi non si ha memoria, o almeno non ne ho io, che il dottor Degni si sia risentito. Sarei stato volentieri al suo fianco a difesa del ruolo delle Camere, come è delle democrazie rappresentative.
Sennonché non è quello il compito di un magistrato della Corte dei conti tenuto ad esprimersi attraverso gli atti propri del ruolo istituzionale della magistratura contabile. E comunque quell’invito alla resistenza appare decisamente sopra le righe e neppure condiviso dalle opposizioni cui ha inteso prestare il proprio assist. Soprattutto perché “resistere, resistere, resistere”, ben prima di Borrelli, era stato, sul finire del 1917, un invito perentorio rivolto agli italiani dal Presidente del Consiglio Vittorio Emanuele Orlando, appena insediatosi alla guida del Governo all’indomani di Caporetto, quando sembrava diffondersi tra i combattenti e tra la popolazione civile sfiducia nell’esito della guerra iniziata il 24 maggio 1915.
E così il Re Vittorio Emanuele III, che a Peschiera aveva difeso dinanzi ai governi ed agli stati maggiori alleati l’onore del soldato italiano, e il Presidente del Consiglio si ritrovarono, nei rispettivi ruoli, a sollecitare il massimo impegno contro il “nemico storico”, quell’Impero austro-ungarico che negli anni del Risorgimento nazionale aveva costantemente puntellato con le baionette i governi illiberali presenti nell’Italia immaginata dal Congresso di Vienna, pervicacemente ostili all’unità da secoli desiderata.
Un nobile invito a resistere che portò alla vittoria e all’armistizio del 4 novembre 1918, che non ha senso sia richiamato da chi ha evidentemente trascurato il dovere deontologico, proprio di un magistrato, di essere e apparire neutrale rispetto alle vicende della politica, soprattutto nel ruolo della Corte dei conti cui la Costituzione (art. 100, comma 2) assegna il compito delicato, ma essenziale, di controllore della spesa pubblica in sede preventiva e consuntiva. E così l’Associazione Magistrati della Corte dei conti lo ha denunciato al Collegio dei probiviri ritenendolo responsabile di una condotta in aperta violazione dell’articolo 6, comma 3, del codice deontologico, secondo cui, “fermo il diritto alla piena libertà di manifestazione del pensiero, il magistrato si ispira a criteri di equilibrio e misura nel rilasciare dichiarazioni ed interviste ai giornali e agli altri mezzi di comunicazione di massa”. Contemporaneamente le esternazioni del dottor Degni saranno oggetto di un procedimento dinanzi al Consiglio di Presidenza, organo di autogoverno della magistratura contabile. Marcello Degni rischia una condanna probabilmente di esclusivo valore morale che tuttavia sanzioni un comportamento che ha danneggiato la Corte dei conti agli occhi dei cittadini, creando, altresì, tensioni fra l’Istituzione e la politica, in un momento delicato nel quale taluni partiti meditano di rivedere le norme che disciplinano il sistema dei controlli esterni alla Pubblica Amministrazione e della sanzione risarcitoria in caso di “danno erariale”, cioè di un pregiudizio recato alla finanza ed al patrimonio dello Stato e degli enti pubblici, locali e istituzionali.
Non doveva accadere. Ma i post del dottor Degni, che via via hanno messo in evidenza un rilevante contrasto tra il ruolo istituzionale rivestito e l’asserita libertà di manifestazione del pensiero, che è essenziale principio costituzionale il cui esercizio tuttavia non deve intaccare agli occhi del cittadino l’immagine dell’uomo in toga, ha riportato all’attenzione degli studiosi e delle associazioni dei magistrati il tema del reclutamento, nel senso che debba essere accertata non solamente un’adeguata conoscenza delle materie professionali, che potremmo definire il “minimo sindacale”, sia per i vincitori di pubblico concorso che per quelli “nominati” dal Governo, ma anche quell’equilibrio nell’assunzione delle decisioni che deve garantire un corretto esercizio della funzione nell’interesse dello Stato-ordinamento e del cittadino, il quale non deve mai preoccuparsi delle idee politiche del suo giudice. Che certamente ha il diritto, come tutti, di coltivare opinioni sulle vicende della politica, ma ha il dovere di non manifestarle in modo da apparire “di parte”, come si deduce dall’art. 98, comma 3, della Costituzione, il quale prevede che “si possono con legge stabilire limitazioni al diritto d’iscriversi ai partiti politici per i magistrati, i militari di carriera in servizio attivo, i funzionari ed agenti di polizia, rappresentanti diplomatici e consolari all’estero”. Norma non equivoca che, al comma 1, afferma che “i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione”, non, quindi, di una parte, ancorché di fatto.
Il servizio allo Stato da sempre è considerato un motivo di orgoglio che tuttavia comporta dei sacrifici personali, compensati dal prestigio che la funzione esercitata nell’interesse generale riveste agli occhi dei cittadini. Ora è evidente che se nell’apprezzamento dell’opinione pubblica gli appartenenti a talune istituzioni hanno perduto il prestigio che avevano un tempo, vuol dire che il cittadino non riconosce in questi uomini dello Stato delle persone effettivamente super partes. Ricordo spesso, con rammarico, che nelle statistiche sulla considerazione riservata alle istituzioni la magistratura da tempo si attesta intorno alla metà dei punti che indicano l’apprezzamento per le forze dell’ordine, un dato significativo in quanto entrambi i comparti costituiscono agli occhi del cittadino espressione di un identico ambito di tutela della legalità in condizione di indipendenza. Quel dato, dunque, attesta che molti italiani ritengono che vi siano magistrati i quali nelle sentenze e nella partecipazione ad iniziative culturali dimostrano di essere apertamente “schierati” con perdita della loro credibilità. Che le istituzioni di appartenenza hanno il dovere di tutelare, nell’interesse di tutti e in special modo di coloro che operano al loro interno. Perché nel comportamento di ognuno sta l’immagine dell’intera istituzione.