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La riforma costituzionale va completata

di Giuseppe Basini

Se vogliamo che la riforma della nostra Costituzione sia davvero efficace per stabilizzare i governi, restaurare il ruolo del Parlamento e realizzare una democrazia compiuta, all’ottima idea della elezione diretta del primo ministro vanno, necessariamente, aggiunte due riforme: la fine della possibilità di sfiduciare il Governo e le elezioni in collegi uninominali. Se l’Esecutivo, nel suo principale esponente, viene eletto direttamente dal popolo, il Parlamento non deve poterlo sfiduciare (tranne solo i rarissimi casi di impeachment per tradimento della Costituzione, secondo procedure simili a quelle americane). E questo, anche se può sembrare il contrario, rende più forte e protagonista il Parlamento stesso, perché gli restituisce la funzione legislativa. Chiunque sia stato un parlamentare di maggioranza sa quante volte, in perfetta buona fede, è stato costretto a votare in favore di una legge a cui era in coscienza contrario, o rinunciare a un provvedimento a cui teneva, per non mettere in crisi il Governo e rischiarne la caduta. Sicché, di fatto, l’Esecutivo è diventato l’unico vero autore di leggi. E questo non solo in Italia, ma più o meno in tutta Europa e da tempo, tanto che Winston Churchill lamentava di dover ammettere che ormai un sistema completamente a fiducia parlamentare poteva funzionare solo se c’era “the whip”, la frusta, a imporre la più rigida disciplina ai deputati. I Parlamenti, nel corso degli anni, sono diventati così dei formali “votifici”, dai compiti quasi esclusivamente notarili, tranne il Parlamento americano, che invece conta veramente, perché libero di votare senza traumi contro il Governo, che non può essere sfiduciato. Quello Americano, resta così l’unico Parlamento vero dominus della funzione legislativa. La fine del diritto e della prassi della fiducia parlamentare renderebbero in realtà il Parlamento più libero e più forte nelle sue decisioni, più chiaro il suo ruolo e meglio delimitata la divisione dei poteri. Sarebbe una vera riforma presidenzialista, realizzata attorno alla figura del primo ministro, con un Presidente della Repubblica che resterebbe come figura di garanzia. L’altra grande riforma, in grado di ridare vita all’Aula, sottraendola a una partitocrazia leaderistica che ne annulla il ruolo, è la legge elettorale. Non c’è nulla da fare: se si continuano a eleggere parlamentari secondo un ordine di lista deciso, in buona sostanza, dai segretari di partito, sarà ancora la partitocrazia a dominare. E avremo sempre delle camere di “nominati”, anziché di eletti. Così, i partiti e i loro segretari resteranno gli esclusivi detentori del potere reale (tanto che se un esponente vuole davvero incidere, finisce per farsi un partitino personale, portando a una proliferazione di sigle). Se ne esce solo, pertanto, con le preferenze o i collegi uninominali. Le preferenze risolvono il problema ma tendono a creare gruppi consolidati sul territorio, la cui cura diventa spesso la prima attività del parlamentare; i collegi uninominali, se accoppiati a una non troppo alta soglia di firme nel collegio necessarie per la candidatura, probabilmente risolverebbero al meglio la questione. Anzitutto, il deputato non sarebbe più tale solo per grazia ricevuta, ma anche per capacità e credibilità personale. Il cittadino avrebbe un’ampia possibilità di scelta del suo rappresentante, non solo quella, pur essenziale, di schieramento. E l’eletto si sentirebbe più legittimato a scelte liberamente prese secondo coscienza. Probabilmente, avremmo anche una migliore qualità dei parlamentari, perché i partiti sarebbero costretti a presentare candidature credibili per prevalere nel confronto diretto e non solo gli esponenti ritenuti, a torto o a ragione, i più acriticamente fedeli. Intendiamoci: il sistema costituzionale perfetto non esiste, ma può essere migliore o peggiore, adattandosi più o meno bene al Paese in cui si applica. E quanto qui proposto mi pare meglio di quello della riforma allo studio e molto meglio di quello attualmente esistente. In un altro momento, lo avrei definito io stesso un “libro dei sogni”. Ma oggi, con una maggioranza coesa, che ha voglia di fare e che ha posto definitivamente fine all’Italia del consociativismo, posso anche lasciare libero sfogo alla speranza. Perché questa maggioranza, anche se non sempre ne è completamente consapevole, “non può non essere liberale”, come sostanzialmente è il suo elettorato e come sono tutte le destre democratiche dell’Occidente.

(da L’Opinione delle libertà, 10 gennaio 2024)

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