di Salvatore Sfrecola
Quando si parla di storia, ha scritto Benedetto Croce, “l’esattezza è un dovere morale”. Anche perché, com’è noto, le bugie hanno le gambe corte e la verità, prima o poi, inevitabilmente emerge. Ed è così che la morte di Vittorio Emanuele di Savoia, figlio di Umberto II, ultimo Re d’Italia, ha dato luogo a ricostruzioni fantasiose della vita del Principe, fra gossip e vicende varie, per poi sfociare nella consueta condanna senza appello del Nonno, il Re Vittorio Emanuele III, accusato di aver, nel 1922, incaricato Mussolini di formare il Governo, poi di aver promulgato le leggi razziali (1938), infine di aver consentito l’entrata in guerra (1940) e stipulato l’armistizio dell’8 settembre 1943.
Sul Principe si sono sentiti giudizi frettolosi senza tener conto che la persona ha vissuto in una condizione di grandissimo disagio fin da piccolo, da quando ha dovuto abbandonare l’Italia a seguito del referendum del 2 giugno 1946 per vivere lontano dal padre, in esilio in Portogallo, con la madre, la Regina Maria José, che aveva preferito stabilirsi in Svizzera. Il giovane Principe non è stato educato al ruolo di, sia pure ipotetico, successore al trono. Un trono che non c’era e che non c’è ma in funzione del quale avrebbe dovuto essere preparato, come è avvenuto e avviene nelle famiglie reali non più regnanti. E così, il giovane Victor, come lo chiamavano nel jet set internazionale, è stato avviato ad operare nel mondo degli affari, certamente favoriti dalle relazioni familiari, dedicandosi ad attività finanziarie e di intermediazione nella vendita di elicotteri della Agusta in vari paesi del Medio Oriente, in particolare nella Persia dell’Imperatore Mohammad Reza Pahlavi.
Sposato con Marina Doria, senza l’assenso paterno richiesto dalle regole della casata di Savoia, ha continuato a vivere fuori dai circuiti delle case regnanti tanto che, in occasioni come incoronazioni, matrimoni e funerali, la sua presenza è stata pressoché nulla. Per alcune disavventure giudiziarie, a seguito della sparatoria nell’isola di Cavallo che portò alla morte di un giovane tedesco e per una inchiesta nella quale è stato ingiustamente coinvolto in Italia, ad iniziativa della Procura della Repubblica di Napoli, la vita del principe è trascorsa senza la serenità che il suo rango gli avrebbe dovuto assicurare nella aspettativa non tanto del trono quanto di rappresentare la famiglia reale più antica d’Europa.
Nel dibattito televisivo che abbiamo potuto seguire ieri sera su Rete4, prima nel corso del telegiornale, poi in una trasmissione di approfondimento con l’intervento del Presidente dell’Unione Monarchica Italiana, Avv. Alessandro Sacchi, parlare del principe è servito ad alcuni degli intervenuti per contestare ancora una volta al Re Vittorio Emanuele III le decisioni del 1922, del 1938, del 1940 infine l’armistizio con gli anglo-americani del 1943 quale fattore scatenante della guerra civile che ha insanguinato gran parte dell’Italia del Nord.
L’aggressione alla figura di Vittorio Emanuele III non è nuova, anzi è un dato ricorrente già dall’8 settembre 1943, alimentata dalla Repubblica Sociale Italiana (RSI) e dai fascisti duri e puri i quali hanno ritenuto doveroso continuare a combattere al fianco dell’alleato tedesco in una guerra, evidentemente già persa, che gli italiani non avevano desiderato e, soprattutto, che non avevano nessun interesse a combattere.
Tutto ha inizio nell’ottobre 1922 quando, a seguito dei gravissimi disordini sociali dovuti alla crisi economica del dopoguerra, che avevano caratterizzato il biennio precedente e la marcia su Roma delle squadre fasciste, il Re Vittorio Emanuele III nel pieno della sua autorevolezza di “Duce Supremo” delle Forze Armate nella guerra 1915 1918, come si legge nel “Bollettino della Vittoria”, di fronte al rifiuto di Giovanni Giolitti, espressione del mondo liberale, di Luigi Sturzo, capo del Partito Popolare Italiano (PPI), e di Filippo Turati, capo dei socialisti, di concorrere a formare un Governo fu costretto dalle circostanze a dare l’incarico a Benito Mussolini. Questo, presentatosi alla Camera dei deputati per la necessaria fiducia parlamentare ebbe il voto della maggioranza. Si disse allora che il Fascismo rivoluzionario e violento veniva istituzionalizzato grazie al consenso parlamentare, come desiderava certamente la maggioranza del Paese.
Fu una breve illusione. Il delitto Matteotti mette in risalto il perdurare dell’intento eversivo del movimento fascista che, dopo il discorso di Mussolini alla Camera 3 gennaio 1925, assume progressivamente le caratteristiche di un regime politico intollerante delle altrui opinioni, fino ad obbligare i professori universitari, massima espressione della cultura liberale, a giurare fedeltà non solamente al Re ed ai suoi successori, com’era previsto fino ad allora, ma anche al Fascismo e all’educazione che Fascismo avrebbe dovuto fornire ai giovani. Tutto questo in assenza di una efficace opposizione parlamentare autoeliminatasi con la folle iniziativa dell’Aventino senza dare al Re, che esplicitamente lo aveva chiesto a tutti coloro che andavano da lui a segnalare le leggi liberticide, un fatto parlamentare, un voto che potesse consentirgli di intervenire. Il Re “che regna ma non governa”, il Sovrano rispettoso del Parlamento non poteva assumere iniziative che avessero la connotazione di un colpo di Stato del quale, poi, fu accusato quanto avrebbe estromesso Mussolini il 25 luglio 1943 a seguito del voto del Gran Consiglio del Fascismo (il “fatto” giuridico che aveva in precedenza richiesto invano).
Poi il Re viene accusato – anche nel dibattito televisivo – della promulgazione delle leggi razziali alle quali, è noto, era contrario, come aveva riferito, al termine di un colloquio col Re, lo stesso Mussolini. Quelle leggi furono approvate dalla Camera e dal Senato e il Re era tenuto a promulgarle, come avverrebbe oggi, vigente la Costituzione che impone al Presidente della Repubblica, nel caso manifesti dissenso su una legge provocando un nuovo voto delle Camere, di promulgarla.
Singolare che si continui ad accusare il Re di aver promulgato le leggi razziali e non il Duce ed il regime fascista che quelle leggi hanno voluto e votato.
Poi si accusa il Re per l’ingresso in guerra, nonostante fosse nota la sua contrarietà. Vittorio Emanuele III era notoriamente anglofilo e comunque l’Italia non aveva nessun interesse ad entrare in guerra a fianco della Germania contro le potenze marittime, Francia ed Inghilterra, che avrebbero dominato il Mediterraneo così impedendo i rifornimenti alla Libia ed alle colonie dell’Africa orientale. Una situazione analoga a quella che nel 1914-1915 convinse l’Italia a scendere in campo a fianco delle potenze dell’Intesa, Francia e Inghilterra, contro l’Austria e la Germania.
D’altra parte, la ostilità del Re alla guerra ed ai tedeschi risulta dal diario del suo aiutante di campo, il Generale Puntoni, ed è raccolta nei diari di Galeazzo Ciano, il genero del Duce. Ostile ai nazisti, il Re era loro inviso, tanto che Hitler più volte aveva sollecitato Mussolini a faro fuori. Ed è evidente che, se si fosse dimesso, come qualcuno chiede ora per allora per non promulgare le leggi razziali, in quel momento di massimo consenso del Fascismo, riconosciuto da tutti, avremmo avuto la Repubblica Sociale Italiana nel 1938, con le conseguenze che possiamo immaginare: l’entrata in guerra certa e l’impossibilità di uscire dal conflitto nel 1943.
Quell’anno, il 25 luglio, il Gran Consiglio del Fascismo approva l’ordine del giorno presentato da Dino Grandi, Presidente della Camera, che restituisce i poteri costituzionali al Sovrano, avendo giudicato, dal punto di vista politico e militare, del tutto fallimentare l’azione di Mussolini. Ebbene, dietro quella vicenda, dietro l’ordine del giorno Grandi e il voto della maggioranza c’è una tessitura importante, testimoniata da una pluralità di protagonisti, agevolata dal Re, per contro del quale il Ministro della Real casa, il duca Pietro d’Acquarone, intratteneva relazioni importanti con ambienti antifascisti e con l’onorevole Grandi, appena insignito della onorificenza di Cavaliere dell’Ordine della Santissima Annunziata, antico riconoscimento della Casata di Savoia.
Del resto già da tempo era nota l’avversità, ricambiata, del Principe ereditario Umberto al Fascismo tanto che la consorte, Maria José, intratteneva rapporti con alcuni noti antifascisti, come il cattolico Guido Gonella, che curava gli Acta Diurna sull’Osservatore Romano, il quotidiano della Santa Sede, e il Sen. Benedetto Croce, oltre che con il Sostituto della Segreteria di Stato, Giovan Battista Montini, il futuro Papa Paolo VI, con il quale con i quali esaminava ipotesi di uscita dalla guerra, che lo stesso Mussolini desiderava e che avrebbe voluto chiedere ad Hitler nell’incontro di Feltre proprio alla vigilia del 25 luglio ma che forse non ebbe il coraggio di sollecitare o che comunque gli fu rifiutato.
Infine, al Re Vittorio Emanuele viene imputato quel che è accaduto l’8 settembre e successivamente, dopo che il Governo del Re aveva ottenuto dagli angloamericani un armistizio, anche se durissimo, in pratica una resa incondizionata, ma con la previsione di interventi delle forze armate angloamericane per contrastare le milizie tedesche che avevano occupato buona parte dell’Italia centro settentrionale.
Il 9 il Re lascia Roma che nella narrazione dei fascisti di allora, quelli della Repubblica Sociale Italiana, è una fuga. Vale la pena di ricordare, in proposito, che tutti i sovrani dei paesi occupati dai tedeschi avevano lasciato le rispettive capitali per ritirarsi in Inghilterra e continuare da lì la resistenza nei confronti del nemico. Di nessuno di questi è stato detto che era fuggito.
Fugge, invece, secondo i fascisti di allora e di oggi il Re Vittorio Emanuele III che, secondo loro, avrebbe dovuto non abbandonare Roma per difenderla dai tedeschi, trascurando che una tale scelta avrebbe decretato la fine della Città Eterna. Infatti, ci vuol poco ad immaginare come sarebbe stata ridotta Roma se tedeschi e italiani si fossero scontrati con l’apporto dell’aviazione americana poco rispettosa delle vestigia storiche, come dimostrò a Cassino distruggendo l’antico monastero. Palazzi storici e fori romani sarebbero presto diventati un cumulo di macerie. Lo stesso Papa Pio XII aveva invitato il Re a lasciare la capitale che era indifendibile dal punto di vista militare con il rischio della sua completa distruzione.
Ebbene, questa realtà, che è intuibile da chiunque, viene addebitata al Re. Come a lui viene addebitata la presunta mancanza di direttive alle forze armate italiane presenti in Italia e in alcuni paesi confinanti che si trovarono dopo l’8 settembre in gravi difficoltà. In realtà le direttive generali c’erano state ed anche il Messaggio del Maresciallo Badoglio, con il quale si annunciava l’armistizio, concludeva che “conseguentemente, ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza”. Evidentemente dai tedeschi. Né, in quelle circostanze, sarebbe stato possibile dare delle direttive più dettagliate, perché un fonogramma, un telegramma o un qualunque ordine trasmesso in quelle ore sarebbe caduto in mano ai tedeschi molto prima di giungere a coloro ai quali era destinato.
Il Re lasciando Roma si è recato in territori liberi dall’occupazione tedesca e non ancora occupati dagli anglo-americani che peraltro nel frattempo erano diventati alleati e in questo modo ha potuto mantenere la sovranità dello Stato in una parte non piccola del territorio italiano. Non solo, ma nella guerra che poi si è sviluppata al Nord contro gli occupanti tedeschi, i primi a prendere le armi ed a combattere efficacemente sono stati i reparti del Regio esercito che, inquadrati dai loro ufficiali, con la bandiera nazionale in testa, come si vede nei filmati che a volte la televisione manda in onda, hanno combattuto fornendo il primo e il più importante contributo alla guerra di liberazione. Che poi i social comunisti si siano impadroniti della narrazione della Resistenza per farne uno strumento di propaganda anche nel corso del referendum del 1946 è un fatto notorio e la dimostrazione di una notevole falsificazione della storia.
La mia tesi da sempre è quella che l’aggressione a Vittorio Emanuele III serve a tutti coloro i quali non hanno fatto il loro dovere nel 1922 e successivamente per giustificare carenze ed errori vari, che quindi attribuiscono al Re che non si può difendere.
E la morte del nipote, ieri a Ginevra, è un’ulteriore occasione per ribadire e diffondere la vulgata di una fuga che non c’è stata per coprire altre fughe, dalle responsabilità e dalla realtà.