di Salvatore Sfrecola
L’idea di riformare la Costituzione ritorna ciclicamente nel dibattito politico, finora senza successo. Non hanno avuto seguito le Commissioni bicamerali che hanno prodotto poche idee e molte carte, non sono state premiate dall’elettorato le riforme approvate dalle Camere ad iniziativa di Silvio Berlusconi e di Matteo Renzi, bocciate dal referendum. È passata solamente la riduzione del numero dei parlamentari, iniziativa demagogica di chi sosteneva che i parlamentari italiani fossero troppi, mentre erano sostanzialmente quelli di paesi di analoga popolazione, ed è stato un errore perché ha limitato la rappresentanza delle minoranze territoriali e linguistiche. L’unica riforma approvata nel 2001 con tre voti di maggioranza ha riguardato il titolo V e si è rivelata una iattura perché ha prodotto un rilevante contenzioso tra Stato e Regioni che ha significativamente aggravato il lavoro della Corte costituzionale chiamata a giudicare su continui conflitti di attribuzioni. Inoltre, quella riforma, individuando le materie che potrebbero essere attribuite alle regioni in un contesto di “autonomia differenziata”, secondo il disegno di legge “Calderoli” in corso di esame da parte delle Camere, rischia veramente di essere fonte di disarticolazione dello Stato, tanto che un esponente della sinistra parlamentare, Pier Luigi Bersani intervenuto a parlarne a DiMartedì, la trasmissione di approfondimento de La7, ha detto che si dovrà richiamare Garibaldi per garantire il mantenimento dell’unità d’Italia.
In questo contesto il Parlamento è chiamato ad esaminare il disegno di legge che istituisce il cosiddetto “premierato”, d’iniziativa del Governo, sostenuto dall’intera maggioranza, proposto in sostituzione del presidenzialismo, tanto enfatizzato in campagna elettorale ma presto abbandonato perché di difficile approvazione. La proposta di revisione costituzionale ha l’obiettivo dichiarato di affrontare e risolvere le problematiche connesse “all’instabilità dei Governi, all’eterogeneità e alla volatilità delle maggioranze” ed al “transfughismo” parlamentare”, come si legge nella relazione al disegno di legge, cioè al cambio di casacca che, nelle ultime legislature, ha interessato un rilevante numero di parlamentari. È, infatti, opinione generalmente condivisa, che un Governo stabile ha riflessi significativi non solo sull’assetto istituzionale del Paese, ma anche, e soprattutto, sulla credibilità dell’Italia in campo internazionale.
Cardine della riforma è l’elezione diretta del Presidente del Consiglio contestualmente a quella delle Camere, così “valorizzando il ruolo del corpo elettorale nella determinazione dell’indirizzo politico della Nazione”. Infatti, oggi, è la tesi del Governo, “la mancanza di stabilità e di coesione delle compagini governative e del continuum che lega maggioranza parlamentare ed Esecutivo si traduce, innanzitutto, nella difficoltà di concepire indirizzi politici di medio-lungo periodo, di elaborare e attuare riforme organiche, di farsi carico, in ultima analisi, delle prospettive e del futuro della Nazione”.
La riforma assicurerebbe “la decisività del voto elettorale rispetto all’investitura della maggioranza e alla definizione del suo mandato in termini di contenuti programmatici”. Anche per far fronte al rilevante astensionismo dal voto, prova della disaffezione dei cittadini nei confronti della politica. Per cui il proposto meccanismo di “legittimazione democratica diretta” del Presidente del Consiglio, eletto nella Camera per la quale si è candidato. Ad escludere governi “tecnici” o “del Presidente”, presieduti da non parlamentari. Né sarebbe possibile quanto è accaduto con la Presidenza del Consiglio di Mario Monti che, alla vigilia, era stato nominato senatore a vita. Infatti, contestualmente la riforma abolisce l’art. 59 Cost. che consente al Presidente della Repubblica di nominare cinque senatori a vita.
Caratteristica molto enfatizzata della riforma è anche la cosiddetta norma “antiribaltone”, la quale prevede che il Presidente del Consiglio dei ministri in carica possa essere sostituito solo da un parlamentare della maggioranza e solo al fine di proseguire nell’attuazione del medesimo programma di Governo. Norma, tuttavia, sulla quale si è già delineato un ripensamento, anche dalla stessa Presidente Meloni la quale ha esplicitamente affermato che, a suo giudizio, se cade il Presidente si torna al voto. E qui s’inserisce il tema della legge elettorale con previsione di un “premio” assegnato su base nazionale, che assicuri al partito o alla coalizione di partiti collegati al Presidente del Consiglio la maggioranza dei seggi parlamentari. Si è proposto il 55% ma questa misura sembra fortemente contestata e comunque si ritiene non debba essere prevista in Costituzione. Assicurando comunque una maggioranza stabile al Governo si ritiene di evitare le degenerazioni funzionali che hanno caratterizzato l’esperienza del Premierato israeliano, unico precedente in materia.
La relazione al disegno di legge afferma che “la formulazione del testo è ispirata a un criterio “minimale” di modifica della Costituzione vigente, nella convinzione che si debba operare, per quanto possibile, in continuità con la nostra tradizione costituzionale e parlamentare”, anche allo scopo “di preservare al massimo grado le prerogative del Presidente della Repubblica, che l’esperienza repubblicana ha confermato quale figura chiave della forma di governo italiana e dell’unità nazionale”. Su questo aspetto della riforma ed sul ruolo delle Camere si registrano, come vedremo, orientamenti variegati, taluni molto critici.
Invariata rimane la previsione per cui il Presidente della Repubblica conferisce al Presidente del Consiglio dei ministri eletto l’incarico di formare il Governo e nomina, su sua proposta, i Ministri. Il Governo così formato entro dieci giorni si presenta alle Camere per ottenerne la fiducia. “Nel caso in cui non venga approvata la mozione di fiducia al Governo presieduto dal Presidente eletto, il Presidente della Repubblica rinnova l’incarico al Presidente eletto di formare il Governo. Qualora anche in quest’ultimo caso il Governo non ottenga la fiducia delle Camere, il Presidente della Repubblica procede allo scioglimento delle Camere”.
Permane, dunque, la centralità del rapporto di fiducia del Governo con le Camere le quali possono non approvare la compagine ministeriale o non condividere il programma presentato dal Presidente del Consiglio. In mancanza della fiducia iniziale al Governo, il Presidente concede una seconda ed ultima possibilità al Presidente del Consiglio di formare un Governo in modo da evitare l’estrema ratio rappresentata dall’immediato scioglimento delle Camere.
Il disegno originario prevede che in caso di cessazione dalla carica del Presidente del Consiglio, il Presidente della Repubblica può conferire l’incarico di formare il Governo ad un altro parlamentare che è stato candidato in collegamento al Presidente eletto. Ma questa possibilità sembra destinata a cadere. Per affermare il principio del simul stabunt simul cadent, modello costituzionale applicato agli organi apicali delle regioni.
L’iniziativa governativa è oggetto di un dibattito quotidiano, con interventi di politici e di giuristi. C’è chi lo ritiene un passo avanti verso la governabilità, chi teme si cada nel populismo-autoritarismo, chi si colloca a metà strada, ovvero è favorevole ma a certe condizioni.
Schierati senza se e senza ma in favore della riforma sono Paolo Becchi, docente di Filosofia del diritto all’università di Genova, e l’Avv. Giuseppe Palma, autori di un libro che nel titolo definisce “necessaria” la riforma, nella convinzione che è “essenziale riconoscere un ruolo decisivo e centrale al primo ministro. Sarebbero insomma i cittadini ad eleggere direttamente il governo e non ci ritroveremmo più con Presidenti del consiglio usciti dalle manovre di palazzo”.
Per Mario Volpi, docente di Diritto costituzionale all’università di Perugia, “da un lato il premierato può definire un sistema in cui il presidente del Consiglio ha più poteri rispetto al nostro, per esempio quello di revocare i ministri, rimanendo comunque legato a un rapporto di fiducia con il parlamento. Dall’altro lato può definire un sistema in cui il presidente del Consiglio viene eletto direttamente dal popolo, annullando la necessità di un rapporto di fiducia parlamentare”.
E qui è opportuno riflettere sugli attuali poteri del Presidente del Consiglio, come delineati nell’art. 95 Cost. secondo il quale il Presidente “dirige la politica generale del Governo e ne è responsabile. Mantiene l’unità di indirizzo politico ed amministrativo, promuovendo e coordinando l’attività dei ministri”. Ha, dunque, veramente bisogno di essere rafforzato? Secondo Openpolis, l’associazione indipendente che analizza l’operato della politica, in realtà già oggi il Presidente del Consiglio possiede poteri pieni, o quasi, poiché nelle due ultime legislature l’80% delle leggi approvate dal Parlamento sono state proposte dal Governo. Infatti, delle 565 le leggi approvate, ben 440 sono state presentate dai governi. Le altre sono state comunque approvate con il voto della maggioranza che regge il Governo. La Costituzione prevede che la funzione legislativa è esercitata “collettivamente dalle due Camere” e che l’esercizio della funzione legislativa non può essere delegato al governo se non per tempi limitati e per oggetti definiti e che i decreti-legge sono previsti per casi straordinari di necessità ed urgenza. In realtà, si osserva, il Presidente del Consiglio l’unico a legiferare. Perciò il premierato può risultare un totem messo lì dalla politica ma che non cambia nulla. Mai vista tanta abbondanza di decreti-legge la cui necessità ed urgenza è spesso opinabile, convertiti in legge sulla base di una votazione su una questione di fiducia senza che le Camere possano emendare il testo.
Il problema sta a monte e Paolo Pombeni, ex docente di Storia dei sistemi politici all’università di Bologna, si chiede che senso abbia ipotizzare riforme senza prima mettere mano a quella elettorale: “Il cuore del problema è come rimettere in sesto il meccanismo di costruzione/formazione della rappresentanza politica, che è quanto sta al cuore del funzionamento del sistema parlamentare”.
È argomento forte, a mio giudizio decisivo. La classe politica e, conseguentemente, la governabilità del Paese è data dalla qualità della sua classe dirigente, selezionata nei partiti ma approvata dal voto elettorale. Quindi alla base del buon funzionamento dello Stato sta la legge elettorale che deve basarsi su un effettivo rapporto di fiducia tra eletto ed elettore. Lo diceva già sul finire dell’800 Vittorio Emanuele Orlando, costituzionalista e politico insigne, estimatore del sistema elettorale inglese maggioritario a turno unico in collegi uninominali, diffuso nei paesi del Commonwealth, democrazie parlamentari il cui governo è guidato dal capo del partito che ha conquistato la maggioranza assoluta dei seggi, diventando automaticamente il primo ministro.
Questa impostazione di Orlando, che richiama in qualche modo i due “piloni” evocati da Meuccio Ruini in Assemblea costituente, il Capo dello stato e il Parlamento, contrasta nettamente con le ipotesi di premierato in particolare con riferimento al ruolo del Presidente della Repubblica che viene in qualche misura ridimensionato. Come quello delle Camere, secondo un modello definito “neoparlamentare”, sulla base del quale le dimissioni del Presidente del Consiglio comportano in ogni caso lo scioglimento delle assemblee legislative.
Drastico è il giudizio di Andrea Pertici, docente di Diritto costituzionale all’università di Pisa. “Il mio giudizio sul premierato come “sindaco d’Italia” è molto negativo, si avrebbe un premier che di fatto controlla il parlamento”. Contrario anche Massimo Villone, docente emerito di Diritto costituzionale all’università Federico II di Napoli, per il quale, “se il premier acquisisce il potere principale del Capo dello Stato, che è la nomina del presidente del Consiglio e il potere di scioglimento delle Camere, non vedo come sia possibile evitare di toccare il ruolo del Capo dello Stato. Dire che non cambia nulla è una contraddizione”.
Anche per Tommaso Edoardo Frosini, docente di Diritto costituzionale all’università Suor Orsola Benincasa di Napoli, bisogna intervenire sulla legge elettorale: “Il capo del governo dovrebbe essere sostenuto da una maggioranza parlamentare, espressione di un sistema elettorale che premia, maggioritariamente, la lista o le coalizioni di liste che sostengono il candidato primo ministro”.
Gianfranco Pasquino, Professore emerito di Scienza della Politica nell’Università di Bologna, che ne ha scritto su Domani, il rischio maggiore è “quello dell’immobilismo politico e decisionale di un primo ministro che “ricatta” la sua stessa maggioranza per non farsi sostituire minacciando lo scioglimento del parlamento, poiché questo potere non sarà più nella disponibile nel presidente della Repubblica”.
È presto per dire come andrà a finire. Una cosa è certa, la personalizzazione dell’iniziativa da parte del Governo e per esso della Presidente del Consiglio, nel caso di un’eventuale sconfitta referendaria travolgerà l’esecutivo e il futuro politico di Giorgia Meloni.
(bozza di un articolo per Opinioni Nuove)