domenica, Novembre 24, 2024
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L’ipotesi Valditara sulla composizione delle classi, tra italiani e stranieri, è ragionevole e favorisce l’integrazione

di Salvatore Sfrecola

A corto di idee, e sempre pronti a giocare di rimessa per farsi notare, i sinistri di partiti e cespugli si sono scatenate contro la proposta del Ministro dell’Istruzione, Giuseppe Valditara, di prevedere che nelle classi i ragazzi di origine straniera siano in numero inferiore agli italiani, al fine di favorire la loro integrazione. L’idea del Ministro a me sembra molto ragionevole perché dovrebbe evitare che, forti del loro numero, gli studenti “stranieri” tendano a chiudersi tra di loro, parlando la lingua del paese d’origine, mentre la conoscenza dell’italiano è condizione essenziale per inserirsi nella società, partecipare alla vita della scuola ed alle attività extrascolastiche, culturali e sportive. 

Quella del Ministro è una scelta che offre a ragazzi, che probabilmente in casa parlano la lingua del paese di provenienza, la possibilità di aprirsi alla società italiana, cosa non facile, ad onta della retorica del cosiddetto ius scolae e del fatto che, essendo nati in Italia, sarebbero “italiani a tutti gli effetti”. Un dato che l’esperienza insegna essere di scarso interesse ai fini della integrazione perché questi giovani vivono nella loro famiglia e nella loro comunità, immersi nella cultura dei genitori, come hanno dimostrato, ancor di recente, i comportamenti tenuti nelle famiglie nei confronti delle ragazze desiderose di aprirsi ai costumi occidentali, nel vestire, nella frequentazione delle amicizie, nei rapporti sentimentali. Queste famiglie sono gelose custodi delle loro tradizioni, molte delle quali noi non comprendiamo e spesso, anzi, respingiamo.

Queste persone vanno comunque capite. Del resto, chiusure nei confronti dell’ambiente non sono soltanto degli stranieri in Italia. Ricordo che al ginnasio avevo una compagna di scuola che era nata negli Stati Uniti, a New York, e lì era vissuta fino all’età di 12 anni. Ebbene, non sapeva una parola di inglese perché era vissuta in un quartiere italiano, aveva frequentato una scuola dove si parlava solo italiano, le famiglie amiche erano solo italiane.

Io credo che la scuola debba favorire l’integrazione ma non può essere imposta perché queste persone, che sono venute in Italia per fuggire da situazioni di pericolo o di grave crisi economica, sono comunque legate al loro paese di origine e non è neanche giusto sottrarli alle loro tradizioni. Nei giorni scorsi si è parlato del caso del giovane che si è suicidato perché sentiva la mancanza della sua terra. Ricordo, e lo ricorderanno i nostri lettori, quel giovane coraggioso che, sequestrato insieme agli altri compagni di scuola da un terrorista su uno scuolabus, che ha avuto la freddezza di mantenere la calma e di chiamare i Carabinieri. Gli si è voluto giustamente riconoscere il valore ed il coraggio premiandolo con la cittadinanza italiana. Ebbene, qualche giorno dopo quel ragazzo si è fatto fotografare con sulle spalle la bandiera egiziana. Quel bambino, infatti, è egiziano. Perché dovremmo sradicarlo dalla sua storia che, fra l’altro, è straordinaria ed ha sempre entusiasmato le persone di cultura? Per cui ho scritto in un articolo su La Verità che per lui il Padre della Patria non è Vittorio Emanuele II ma probabilmente un faraone, magari Ramses II.

Tutto questo perché dobbiamo capire che una cosa è accogliere gli stranieri, farli studiare e farli lavorare, altro è dare loro la cittadinanza italiana perché nati in Italia o perché hanno trascorso qualche anno sui banchi di una scuola italiana. Perché la cittadinanza è la partecipazione alla vita della Nazione, si identifica con la storia e con l’identità di un popolo. Per cui dobbiamo renderci conto che esistono in un territorio cittadini, residenti e ospiti, i quali possono anche avere, ed è giusto che li abbiano, gli stessi diritti del cittadino per l’istruzione, la sanità, le attività sportive, ma possono non essere cittadini italiani e quindi non avere il diritto di voto per scegliere chi ci deve amministrare. Non è discriminazione, ma percezione di una diversità ineliminabile.

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