di Salvatore Sfrecola
Quella fra Governo e Corte dei conti è da qualche tempo una difficile relazione. I controllori, si sa, non sono mai particolarmente graditi, mettono gli occhi dappertutto, richiamano al rispetto delle regole che spesso la politica tende a forzare. Eppure, c’è stato un tempo, quando governava una destra liberale con altissimo senso dello Stato, che i controlli di legalità erano graditi ed i governi li sollecitavano a garanzia della propria efficienza e del rispetto dei cittadino e del Parlamento.
Ritroviamo questi concetti nelle parole di un grande personaggio politico della Destra storica, il Ministro delle finanze Quintino Sella, ingegnere, scienziato di fama internazionale nella materia dei solidi cristallini, famoso ministro “della lesina”, rigidissimo nella difesa dei conti dello Stato appesantiti dall’impegno finanziario delle guerre del Risorgimento, il quale il 1° ottobre 1862 aveva avuto il compito, in rappresentanza del Governo, di insediare la Corte dei conti del Regno d’Italia, l’organo di controllo che sostituiva le Corti preesistenti a Torino, Firenze, Napoli e Palermo. Sottolineava Quintino Sella come fosse un’emozione forte la sua, quella di “inaugurare il primo Magistrato civile che estende la sua giurisdizione a tutto il Regno”. Ma le cose importanti e di permanente attualità sono le osservazioni che il Ministro, in qualità di esponente del Governo soggetto ai controlli rivolge al suo controllore. E sono la riprova del livello morale e politico della classe dirigente della destra italiana dell’epoca.
Il discorso si apre con alcune considerazioni relative all’impegno del Parlamento e del Governo nel riordinamento dell’amministrazione dello Stato appena istituito per poi rivolgersi direttamente ai magistrati della Corte. “Altissime sono le attribuzioni che la legge a voi confida. La fortuna pubblica è commessa alle vostre cure. Della ricchezza dello Stato, di questo nerbo capitale della forza e della potenza di un paese voi siete stati creati tutori.
Né ciò basta; ad altre nuovissime e nobilissime funzioni foste inoltre chiamati. È vostro compito il vegliare a che il Potere esecutivo non mai violi la legge; ed ove un fatto avvenga il quale al vostro alto discernimento paia ad essa contrario, è vostro debito il darne contezza al Parlamento. Delicatissimo ed arduo incarico, tanto che a taluno pareva pericolo l’affidarlo a Magistrati cui la legge accorda la massima guarentigia di indipendenza, cioè la inamovibilità. Questo timore non ebbi, no, o Signori, e non esitai a propugnare per voi così delicate attribuzioni, ed il feci perché ho fede illimitata così nel senno civile degli italiani, come soprattutto in un regime di piena libertà e di completa pubblicità; regime che agli Italiani, certo quanto ad ogni altro popolo civilissimo meravigliosamente conviensi. Il feci… certo che sarebbesi mirabilmente conciliata l’osservanza della legge con la prudenza che in momenti difficili potrebbe tornare indispensabile. … A voi quindi spetta quindi il tutelare la pubblica fortuna, il curare la osservanza della legge per parte di chi debba maggior riverenza, cioè del Potere esecutivo, senza che abbia meno male quella energia e prontezza di esecuzione che in alcuni momenti decide dell’avvenire di un paese. Voi compirete il vostro mandato in guisa che dalla istituzione di questa Corte l’Italia tragga i più lieti auspici per la sua unità amministrativa e legislativa”.
Il tono a tratti è enfatico, secondo il linguaggio dell’epoca, ma lo spirito è sincero, considerato che la legge n. 800 del 14 agosto 1862, istitutiva della Corte le attribuiva amplissimi poteri. Infatti, l’art. 13 disponeva che “tutti i decreti reali, qualunque sia il Ministero da cui emanano e qualunque ne sia l’obbietto, sono presentati alla Corte perché vi apponga il visto e ne sia fatta registrazione”. In un contesto nel quale (art. 15) “la responsabilità dei ministri non viene mai meno in qualsiasi caso per effetto della registrazione e del visto della Corte”. Importante, poi, la funzione di vigilanza sulla riscossione delle entrate e sui valori in denaro e in materie ed altresì il giudizio sui conti, attribuzione originaria dell’antica Camera dei conti e di tutte le istituzioni di controllo cui la legge dedica il capitolo V del Titolo II (Delle attribuzioni della Corte dei conti) composto di ben 15 articoli.
Poche osservazioni, di permanente attualità. Il Governo della Destra storica appare consapevole del ruolo di garanzia della Corte in funzione del buongoverno dell’amministrazione e della finanza dello Stato in rapporto al ruolo del Parlamento del quale la Corte fin d’allora fu definita la longa manus. Prima che la Costituzione della Repubblica all’art. 1, comma 2, affermasse che la sovranità “appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”, cioè attraverso il ruolo delle Camere cui spetta stabilire l’ammontare delle spese e delle entrate dello Stato, cioè degli oneri fiscali a carico dei cittadini. Un rapporto che ci ricollega ad un patto storico, fonte della democrazia parlamentare, quello sancito in Inghilterra nel 1215 tra Sovrano e contribuenti con la Magna Charta Libertatum secondo il quale il popolo, attraverso gli organi della sua rappresentanza, autorizza il prelievo fiscale in funzione delle spese del governo che si riserva, poi, di controllare. È quel che fa il nostro Parlamento avvalendosi delle valutazioni della Corte dei conti in sede di approvazione annuale del rendiconto finanziario e patrimoniale, elementi essenziali per valutare l’affidabilità delle previsioni di spesa e d’entrata del nuovo esercizio finanziario.
Non si comprendono, quindi, alcune prese di posizioni di personaggi della politica che pure si dicono avere senso dello Stato. Lo dicono. E basta.