di Salvatore Sfrecola
Doveva accadere ed è accaduto. Non so come e perché è stato impedito ad uno scrittore dichiaratamente di parte, Antonio Scurati, di dire la sua sulla Resistenza con inevitabili sbavature di politica attuale, allo scopo evidente di criticare il pensiero e l’opera del Presidente del Consiglio. Un monologo talmente intriso di polemica nei confronti di Giorgia Meloni e della sua parte politica che sarebbe passato quasi inosservato nel turbinio del dibattito politico che di quegli argomenti si avvale quasi quotidianamente.
Invece, oggi, alla vigilia di importanti elezioni, regionali ed europee, le sinistre hanno fruito di un assist insperato, anche se inevitabilmente in vista del 25 aprile, ricorrenza della Liberazione nazionale, più di qualcuno sarebbe tornato a rimproverare Giorgia Meloni di non proclamarsi “antifascista”. E così a viale Mazzini qualcuno, probabilmente per eccesso di zelo filogovernativo, ha provocato il caso, qualcuno, certamente inadatto al ruolo, ha fatto del giornalista scrittore una vittima da gettare tra le gambe degli italiani e degli elettori. Un caso creato dal nulla perché, ne sono certo, se l’avessero ascoltato coloro che seguono la trasmissione “Che sarà”, condotta da Serena Bortone, alla quale era destinato, si sarebbero presto accorti che lo scrittore non avrebbe detto niente di più di quello che, dal 1945, ci racconta la vulgata resistenziale di ispirazione social comunista. Che ovviamente va condivisa sul tema di fondo del fascismo liberticida, mentre dubito che avrebbe conquistato qualche elettore alle sinistre di Elly Schlein, Giuseppe Conte e Nicola Fratoianni, quotidiani detrattori dell’opera del Presidente del Consiglio e della sua maggioranza.
Ha fatto bene, dunque, Giorgia Meloni a pubblicare sul suo profilo Facebook il testo, per togliere ogni pretesto al “martire” ed ai suoi fans, e per consentire a ciascuno di giudicare liberamente dalla prosa scuratiana le ragioni “politiche” attuali del significato della festività.
Un risultato, tuttavia, mi auguro la vicenda porti con sé, quello di far comprendere che non si gestisce il potere piazzando qua e là amici, compagni di scuola e parenti, certamente fedeli, se non è anche accertata anche la competenza professionale nello specifico ruolo, avendo anche la capacità politica d’intendere gli effetti di una comunicazione intrisa di quotidiane, ripetitive affermazioni che sembrano ispirate a veline predisposte altrove e frettolosamente imparate a memoria. Sempre con le stesse parole, di giorno in giorno, con esaltazione di risultati in forma mielosa ma evidentemente ritenuta idonea a conquistare nuovi consensi.
L’esperienza dell’informazione politica ci dice, invece, che il troppo stroppia, come hanno imparato presto leader politici dalla parola facile, da Amintore Fanfani a Silvio Berlusconi.