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25 aprile, la Resistenza del Re contro nazisti e fascisti

di Salvatore Sfrecola

Il Re che in una Monarchia costituzionale parlamentare “regna ma non governa”, si trova naturalmente solo nelle emergenze della storia se la classe politica non è in grado di governare. E così Re Vittorio Emanuele III, che aveva sollecitato ed assecondato le riforme di carattere economico e sociale dei Governi liberali del primo decennio del ‘900, si trovò solo quando, di fronte alla grave crisi economica e sociale del dopoguerra, la classe politica, nonostante esprimesse forti personalità con i liberali di Giovanni Giolitti, i popolari di Don Luigi Sturzo ed i socialisti di Filippo Turati, si dimostrò incapace di dar vita ad un governo che affrontasse le difficoltà del momento, compresa la tutela dell’ordine pubblico squassato dalle violenze di frange eversive contrapposte, essenzialmente marxiste e fasciste.

È da questa impasse che i partiti non trovano di meglio di un Governo Mussolini al quale una Camera, liberamente eletta, concede la fiducia. Ed anche quando si cominciano a percepire gli intenti eversivi del sistema costituzionale, ancora una volta quei partiti lasciano solo il Re e, invece di resistere in difesa della democrazia rappresentativa, abbandonano l’impegno parlamentare (Aventivo). Lasciano solo il Re durante il ventennio nel quale, quello che ormai era un regime totalitario, s’irrobustiva del consenso popolare, come da tutti gli storici riconosciuto. La compressione della libertà personale di manifestazione del pensiero, infatti, è un vulnus che percepisce soltanto una minoranza. Ai più piace quel tanto di ordine che il Fascismo ha imposto, a cominciare dal rispetto dell’orario dei treni, e si esalta per il ricordo della storia di Roma antica e per le conquiste coloniali che riscattano le disavventure Crispine in Africa Orientale. La borghesia aderisce in buona parte al regime, come la classe militare, sistematicamente acquisita al regime con promozioni ed onorificenze, nella speranza di annacquarne la tradizionale fedeltà alla Corona.

Solo, ma geloso delle prerogative statutarie, Vittorio Emanuele III, che la guerra, come gran parte del popolo italiano aveva subito, si prepara ad intervenire per evitare ulteriori lutti all’Italia e, da solo, studia la sostituzione del Governo del Cavalier Benito Mussolini. L’evento del 25 luglio 1943, infatti, pur formalmente provocato dal voto del Gran Consiglio del Fascismo sull’ordine del giorno presentato da Dino Grandi, Presidente della Camera, uno dei Quadrunviri della “marcia su Roma”, era stato preparato da tempo, mettendone a parte personalità antifasciste, come dimostra l’avviso a Vittorio Emanuele Orlando il “Presidente della Vittoria”, liberale antifascista, a tenersi pronto, ricorda Giulio Andreotti, per un evento previsto per fine luglio. Si riunivano a casa di Giuseppe Spadaro.

Quando, nel pomeriggio del 25 luglio, gli italiani seppero che il Re aveva “accettato” le dimissioni di Mussolini esplose un giubilo incontenibile nelle città e nei borghi della Penisola, un tripudio di popolo che issava la bandiera della Patria e foto del Sovrano a dimostrazione che, nonostante gli anni della dittatura fascista, il rapporto tra gli italiani e la Corona erano improntati alla percezione dell’importanza del ruolo del Re, quale espressione dell’identità nazionale e della storia risorgimentale. Sono lì a dimostrarlo i filmati e le foto dell’epoca. Del resto, facendo tara sul numero di quanti non hanno potuto votare e delle obiettive difficoltà di una campagna referendaria per una istituzione che non è un partito, mentre i fans della Repubblica schieravano organizzazioni presenti sui territori dotate di disponibilità finanziarie rilevanti, i risultati del 2 giugno 1946 hanno dimostrato che l’Italia era spaccata a metà. Inoltre, sul piano politico, i voti andati alla Monarchia corrispondono a quelli che avranno nelle elezioni legislative la Democrazia Cristiana ed i partiti minori di quello che oggi si definisce centrodestra.

Gli italiani, pur obnubilati dalla propaganda del regime, nei lunghi anni gestiti dall’“Uomo della Provvidenza”, credevano nella Corona, la consideravano l’ancora di salvezza per evitare la “morte della Patria” che si prospettava a fronte di una sconfitta durissima in una guerra che non eravamo interessati a combattere per ragioni che oggi diremmo geopolitiche, noi a cospetto del Mediterraneo con interessi in Africa settentrionale e loro, i tedeschi, attratti dalle terre dell’Europa centrale. Impreparati, con gli arsenali svuotati dalle guerre d’Etiopia e di Spagna nelle quali, accanto al tradizionale valore del soldato italiano, si era manifestata l’inadeguatezza dell’alta dirigenza militare, siamo stati indotti a combattere le potenze marittime che dominavano quello che un tempo era stato il “Mare nostrum” impedendoci di alimentare le truppe presenti in Libia ed in Etiopia. 

A fronte della sconfitta inevitabile, la parte più responsabile del regime si rese conto che era necessario confidare nel Re e nel suo ruolo, evidente nell’ordine del giorno Grandi e nel dibattito che ha animato la seduta del Gran Consiglio, quale risulta dai diari dei protagonisti. Non era facile chiudere con il passato e collaborare con gli ex nemici, americani ed inglesi, già nostri alleati nella Prima Guerra Mondiale, che ci avevano sollecitato a non schierarsi con il dittatore nazista. Non è stato facile. Nell’Italia occupata dai tedeschi pronti a farla pagare ai “traditori”, aiutati da quella parte dei fascisti che ritenevano un dovere restare fedeli al vecchio alleato, la Guerra di Liberazione è stata anche un sanguinoso conflitto tra italiani. Infatti, accanto ai reparti del Regio Esercito, inquadrati e guidati dai loro ufficiali, combatterono sulle montagne bande di civili molte delle quali si riferivano ai partiti politici, comunisti, socialisti, democristiani, monarchici, liberali, repubblicani. Li organizzava il Comitato di Liberazione Nazionale, il CLN, guidato dal Generale Raffaele Cadorna. Nonostante l’impegno dei militari fedeli al Re la Resistenza è diventata presto patrimonio dei partiti antifascisti, soprattutto dei comunisti e dei socialisti, ostili alla Monarchia.

E così, mentre si manifestavano ovunque in Italia incredibili conversioni alla democrazia di quanti si erano schierati con il fascismo, neorepubblicani e repubblichini si trovarono insieme a combattere contro la Monarchia, taluni per nascondere le loro responsabilità storiche per aver lasciato solo il Re Vittorio Emanuele III nel 1922 e lungo il “ventennio”, altri per fedeltà alla memoria del Duce, l’Italia si avviò al referendum del 2 giugno 1946 che la Monarchia non poteva vincere, nonostante un consenso popolare largamente accertato, perché non lo volevano i partiti antifascisti, alcuni dei quali evocavano il pericolo di una guerra civile che si poteva immaginare più cruenta di quella appena conclusa.

Nella campagna elettorale referendaria i monarchici non disponevano delle risorse economiche, ingenti e spesso di provenienza estera, che alimentavano le iniziative dei fautori della Repubblica. Potevano solamente ricordare che, con la sua sola presenza, Re Vittorio aveva caricato su di sé tutto il dramma della guerra perduta, delle distruzioni e dei lutti che sarebbero stati assai maggiori se l’Italia fosse stata una repubblica, come Hitler sollecitava a Mussolini. 

È storia non si cancella. E renderà onore al Re che ha mantenuto fede al suo ruolo e salvato l’Italia come solo un Re sa fare, avviando, con la destituzione di Mussolini, la Resistenza che oggi ricordano anche quanti hanno combattuto più volentieri i fascisti che i tedeschi per coprire spesso, sotto l’ombrello nobile della Guerra di Liberazione, vendette personali o politiche.

Infine, con le parole di Indro Montanelli, va detto che, tra quanti votarono per la Repubblica, “pochissimi si erano resi conto che, con la Monarchia, l’Italia rinnegava il Risorgimento, unico tradizionale mastice della sua unità. Scomparso anche quello, il Paese era in balìa di forze centrifughe che ne facevano temere la decomposizione. Aizzata dai socialcomunisti, la lotta di classe deflagrava con una violenza proporzionale alla repressione cui per vent’anni l’aveva sottoposta il fascismo; mentre il regionalismo fomentato soprattutto dai democristiani, assumeva, specialmente in Sicilia, gli estremi del separatismo”.

Oggi si chiama “autonomia differenziata” e nell’aggettivo sta il senso di una scelta politica non più guidata dal “mastice” risorgimentale, ereditato da una classe politica liberale che non c’è più.

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