domenica, Novembre 24, 2024
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Il lavoro: uno sguardo al passato, una riflessione sull’oggi

di Antonio Fugazzotto

Partiamo da assunti come questi: “ora et labora” e “il lavoro nobilita l’uomo”.

Ora et labora: la regola di San Benedetto si pone essenzialmente uno specifico fine che è quello di sconfiggere l’ozio che viene considerato nemico dell’anima: perciò il lavoro manuale e lo studio delle cose divine, sono precetti che i fratelli devono seguire. Il lavoro anche come diversivo e soprattutto come un potente rimedio a moltissime tentazioni, un toccasana contro la debolezza e la mollezza dovuta alle lusinghe del peccato. E di qui il binomio del lavoro e la preghiera che definisce la contemplazione come attività suprema dell’intelligenza e dei sentimenti che insieme conducono e avvicinano l’anima al divino e alla pienezza di Dio.

Il lavoro nobilita l’uomo: un assunto molto conosciuto che pare si possa attribuire e Charles Darwin, il famoso biologo naturista ottocentesco padre della “Teoria dell’evoluzione”. Possiamo immaginare facilmente quale significato lo scienziato volesse attribuire a questa frase. Quello cioè che il lavoro può promuovere la propria crescita personale permettendo di accedere anche un rango più elevato nella scala etica e morale. Offre la possibilità di evolversi e crescere socialmente. Ma l’assunto lascia trasparire un dettaglio non trascurabile secondo cui non prevale la tipologia di occupazione, ma il fatto di far parte di un gruppo, di una categoria insita nella società viva e operante.

Ma se rivolgiamo lo sguardo indietro nella storia e, restringendo il nostro spazio di azione riflessiva visto il tema di dimensioni vastissime, ricordiamo che nell’antica Roma ad esempio in tutte le sue fasi storiche, regno, repubblica e impero, si può riscontrare il fenomeno economico e sociale della schiavitù che va crescendo esponenzialmente con il crescere dell’espansione delle conquiste e del dominio di Roma delle popolazioni che vengono via via sottomesse e molto spesso rese schiave. Il lavoro perciò come schiavitù. Una triste e vergognosa piaga che ha visto grandi fette di popolazioni africane deportate in America da schiavisti senza scrupoli e immesse sul mercato degli schiavi dando vita ad una delle più oscure e vergognose fasi storiche con cui l’umanità l’intera ha dovuto misurarsi. Il lavoro quindi come schiavitù. Un fenomeno che attraverso lotte cruente ed il sacrificio di veri eroi che ebbero il coraggio di sfidare le grandi lobby e i potentati affaristici, sembra debellato ma che sussiste e persiste sotto varie forme e declinazioni. Il caporalato, ad esempio, molto diffuso nel nostro Paese. Un’attività totalmente e palesemente illegale attuato da vere e proprie organizzazioni mafiose criminali che agisce sfruttando grandi fasce di immigrati disperati che si trovano in condizione di clandestinità o di irregolarità nel nostro Paese. Un fenomeno che persiste forse perché non lo si vuole debellare, da parte di chi potrebbe farlo e perché in qualche modo tampona momentaneamente una situazione di illegalità di chi si trova clandestinamente nel nostro paese. 

Ma rimanendo nell’attualità e definendo il vasto tema entro altri limiti, come non denunciare con forza la disparità di trattamento troppo spesso riservato alle lavoratrici rispetto ai colleghi maschi?

Ho intenzione qui di affrontare questo tema con il massimo della capacità di equilibrio e di equidistanza da certe posizioni influenzate e corrotte da approcci ideologici che non fanno altro che limitare e inquinare una serena e lucida analisi.

Per entrare e denunciare questa disparità desidero raccontare la storia di Francesca, una giovane donna di trentasei anni, romana, abitante con i genitori molto anziani nella fascia est di Roma. Alla morte della madre si ritrova sola a gestire il padre malato di alzheimer. C’è un affitto da pagare e le bollette indispensabili e si vive con una minuscola pensione. Lei è stata licenziata da una ditta da sei mesi, o meglio il suo contratto a tempo determinato, di cui ha chiesto con insistenza la proroga, non le viene rinnovato. Apparentemente perché la sua funzione di telefonista addetta al contatto con i clienti non è più necessaria. Ma realmente perché non ha dato seguito alle insistenti attenzioni del titolare della ditta. 

La situazione è grave. Bisogna trovare in fretta un lavoro. Ha un compagno che ha un’occupazione saltuaria di guardiano. Dopo tanta ricerca un’eventualità si fa avanti. Francesca riesce ad avere un colloquio con un possibile datore di lavoro a cui aveva  fatto pervenire il curriculum. Le sue precedenti mansioni calzavano perfettamente con i requisiti richiesti. Dal colloquio, che si sviluppa con toni cordiali ed incoraggianti emerge che potrà iniziare già dal successivo lunedì ma in nero e con una paga, a fronte di 40 ore settimanali, di 850 Euro mensili. Appare però una postilla non di poco conto: non è gradita alla ditta una gravidanza e soprattutto non saranno concessi permessi per maternità o allattamenti vari. Questo secondo aspetto gela Francesca molto di più della scarsa retribuzione. Ma è costretta ad accettare, non può fare altrimenti. Il lavoro inizia e va avanti per qualche mese. Finché non scopre di essere incinta. Che fare? Ne parla al compagno che, non conoscendo la postilla, la abbraccia per la felicità. Ma Francesca sa di trovarsi davanti ad un terribile bivio. Il lavoro o una vita che può coronare il sogno di una famiglia? Una notte si sveglia e prende una decisione. Non ha scelta. L’aborto.

Toglie dal suo corpo una vita che sarebbe stata la sua felicità di donna e di madre e si presenta al lavoro con la morte nel cuore.

Una storia che la dice lunga su quanta strada ancora ci sia da fare affinché nella nostra società postmoderna ed evoluta il lavoro possa rappresentare una possibilità per tutti, uomini e donne, senza che quest’ultime spesso debbano pagare cara la loro fondamentale condizione di possibili compagne, mogli e madri.

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