di Salvatore Sfrecola
Il dibattito sulla “separazione delle carriere”, fra magistrati requirenti e giudicanti, che registra nell’opinione pubblica contrastanti valutazioni, avrebbe inevitabilmente l’effetto di curare un “male” con qualcosa di peggio. Poi spiegherò perché ho usato il condizionale (“avrebbe”) e perché la riforma, a mio giudizio, è il peggio
La tesi che portano avanti i promotori della riforma è quella che la separazione delle carriere (oggi è prevista una distinzione di funzioni che rende non facile il passaggio dal ruolo di Pubblico Ministero a quello di giudice e viceversa) servirebbe ad evitare che, appartenendo ad uno stesso corpo, i magistrati giudicanti siano indotti a dare ragione ai colleghi requirenti.
Va, in primo luogo, premesso che questa conclusione è smentita dai fatti e dalle statistiche perché accade sovente – ed è uno dei maggiori argomenti di discussione intorno al sistema Giustizia – che persone inquisite con imputazione di gravi reati, in particolare contro la Pubblica Amministrazione, siano state poi assolte, il che dimostra che i magistrati giudicanti non sono appiattiti sulle indicazioni dei colleghi requirenti. Ma l’assurdità dell’argomentazione non viene rilevata.
È, dunque, mia opinione che la separazione delle carriere, con un distinto Consiglio Superiore costituito solo da magistrati requirenti, sia pure con l’apporto di una componente politica, realizzerebbe un potere assolutamente autonomo, non condizionato dalla possibilità di passaggio alle funzioni giudicanti. Aggiungo che la tesi che il Pubblico Ministero sia l’“avvocato dell’accusa” allo stato attuale trascura di considerare che il ruolo del requirente è quello di intervenire presso il giudice per fare giustizia. Cioè, per intenderci, il P.M. non è il difensore dello Stato persona giuridica, che spetta all’Avvocatura dello Stato, ma dell’ordinamento giuridico.
Con questa riforma, dunque, sembrerebbe (ancora al condizionale) che i politici si vogliano far male da soli. Ma siccome noi dei politici possiamo dire di tutto, che sono assolutamente inadeguati, impreparati, spesso di una imbarazzante modestia, facendo ovviamente la tara con quelli che hanno professionalità ed esperienza, ma non che siano sprovveduti e che non sappiano come si difendono gli interessi della “Casta”, come dimostra l’antica querelle sull’abuso d’ufficio anche nella formula ultima la quale prevede (art. 323 c.p) che l’autore dell’illecito procuri “a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale”.
Ma poiché parliamo di professionisti della politica, cioè di persone che spesso non hanno mai svolto nessuna attività lavorativa, aggrappati ad una poltrona che assicura loro lauti compensi, è giusto chiedersi come mai vogliano fare questa riforma. La risposta è una sola. Nonostante quello che si dice, l’obiettivo finale è la sottoposizione del Pubblico Ministero al potere politico in concomitanza con la riforma di un’altra norma costituzionale (l’art. 132), spesso evocata, quella impone al P.M. “l’obbligo di esercitare l’azione penale”, a garanzia della par condicio dei cittadini. Infatti, combinando sottoposizione al potere politico del Pubblico Ministero e individuazione dei reati da perseguire la casta è salva.
D’altra parte il dubbio, che per me è la certezza, che si intenda sottoporre Pubblico Ministero al controllo del potere politico sta nella storia d’Italia, perché un tempo il “Procuratore del Re” era il “rappresentante del potere esecutivo presso l’autorità giudiziaria”. Si dirà che se nell’Italia liberale c’era questa regola perché non ripristinarla nell’Italia della Repubblica? Anche se poi i Procuratori del Re hanno dimostrato sempre una straordinaria indipendenza, come dimostra il fatto che Mussolini creò un “Tribunale speciale per la difesa dello Stato”, evitando di attribuire quella difesa che era, in realtà, del regime, ai magistrati ordinari.
A conclusione di queste considerazioni critiche sulla riforma delineata in ambito governativo, mi chiedo come mai i “soloni” che circondano i partiti di maggioranza, invece di proporre la separazione delle carriere non abbiano preso in considerazione la possibilità di correggere il codice di procedura penale come modificato dal decreto legislativo n. 447 del 22 settembre 1988 che ha soppresso la figura del “giudice istruttore”, essendo stato già soppressa quella del “Pretore” (d.lgs. n. 51 del 19 febbraio 1998) perché si è voluto che il processo assumesse un rito tendenzialmente accusatorio, e trasformato il Pubblico Ministero in un superpoliziotto che conduce le indagini e quindi si innamora della tesi che porta avanti. Un tempo, invece, il Pubblico Ministero esaminava con opportuno distacco le risultanze delle indagini della polizia giudiziaria ed assumeva le sue decisioni in scienza e coscienza.
Non ci vorrebbe molto a ripristinare un sistema che aveva un equilibrio sperimentato, alterato da chi, per il gusto di scopiazzare il processo “all’americana”, forse si era acculturato guardando i film di Perry Mason.