lunedì, Luglio 1, 2024
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I numeri delle assoluzioni dicono che i giudici non sono influenzati dalle tesi dei “colleghi” P M. Confusione anche sull’obbligatorietà dell’azione penale

di Salvatore Sfrecola

“Separare le carriere delle toghe non basta. La discrezionalità dei pm è il vero nodo”, così titola La Verità, giornale che, anche in questa occasione, fa fede al suo nome affrontando con grande lucidità il tema al centro del dibattito sulla giustizia con un articolo di Pietro Dubolino, Presidente di sezione a riposo della Corte di Cassazione. Ricorda che “di separazione delle carriere si è cominciato seriamente a parlare solamente da quando, con l’entrata in vigore, nel 1988, del nuovo Codice di procedura penale, basato sul sistema “accusatorio”, il pubblico ministero ha cessato di essere quella che, in precedenza, veniva definita, sia pure con apparente contraddittorietà, una “parte imparziale”, per assumere invece la natura di pura e semplice “parte”, anche se teoricamente gravata dell’obbligo di cercare le prove anche a favore dell’accusato; obbligo che, del resto, corrisponde al suo stesso interesse a non correre il rischio di portare avanti un’accusa che poi si riveli infondata”. E conferma quel che abbiamo sempre segnalato come elemento all’origine delle polemiche e delle proposte di riforma. Il pubblico ministero “è stato anche trasformato, da organo essenzialmente “ricettore” (qual era in precedenza) delle notizie di reato che gli pervengano, sotto forma di segnalazioni, denunce, querele e simili, da organi di polizia, pubblici ufficiali o anche semplici privati, in un organo anche “ricercatore”, di sua iniziativa, delle suddette notizie, laddove ritenga che se ne possano trovare; il che gli ha attribuito un’amplissima discrezionalità inevitabilmente suscettibile di assumere anche connotazioni ideologico-politiche, alle quali però non fa (né può fare) riscontro, come logica invece vorrebbe, alcuna forma di responsabilità politica”. Conseguentemente, scrive Dubolino, si è andata affermando da una parte del mondo politico, quello che è stato maggiormente oggetto di indagini, la proposta “di un rafforzamento della “terzietà” del giudice rispetto alla pubblica accusa, da realizzare facendo in modo che a sostenere quest’ultima non siano dei soggetti da considerare “colleghi” del giudice, in quanto appartenenti al medesimo ‘organo giudiziario’”.

È la tesi che sostiene la proposta di “separazione delle carriere”. Dubolino correttamente segnala quanto avevo sostenuto anche io in un recente articolo, “che il rapporto di colleganza tra magistrati giudicanti e magistrati del pubblico ministero sia la causa di una comprovata propensione dei primi ad accedere alle richieste dei secondi, a scapito dei diritti e delle legittime aspettative della difesa, non può in alcun modo darsi per certo. Basterebbe, a dimostrarlo, l’altissima percentuale di assoluzioni – risultante da dati ufficiali offerti dalle statistiche giudiziarie – pronunciate, all’esito dei giudizi, in difformità rispetto alle richieste del pubblico ministero, anche in processi che hanno avuto larga risonanza mediatica come, ad esempio, quello sulle presunte tangenti Eni a esponenti del governo della Nigeria”. Con la conseguenza che “può tuttavia ammettersi che, per esigenze soprattutto di “immagine” – che hanno una loro importanza e legittimità anche e soprattutto nel campo della giurisdizione – sia ritenuta opportuna e, addirittura, imprescindibile la separazione delle carriere, con l’assicurazione che essa non comporterebbe comunque l’assoggettamento, di diritto o di fatto, del pubblico ministero al controllo e alle direttive del potere esecutivo”. Ipotesi, ricorda l’articolo, smentita dalla maggioranza, che – ritiene l’Autore – “non dovrebbe, di per sé, costituire motivo di scandalo, dal momento che numerosi sono i Paesi sicuramente democratici, a cominciare dalla vicina Francia, in cui, ferma l’indipendenza della magistratura giudicante, il pubblico ministero è posto sotto la direzione o il controllo del potere esecutivo”. Cosa che, a  ostro giudizio, non può non preoccupare in quanto l’esercizio dell’azione penale risulterebbe evidentemente influenzata o influenzabile dalla politica, come espressa dalla maggioranza alla guida del Paese in un determinato momento storico.

Le conclusioni dell’articolo che muove le nostre riflessioni sono nel senso che, “qualora si realizzasse la separazione delle carriere, questa dovrebbe essere accompagnata, se non altro, dalla riconduzione del pubblico ministero alle sue originarie funzioni di organo essenzialmente “ricettore” delle notizie di reato, in modo da eliminare l’anomalia costituita dalla insindacabile discrezionalità di cui oggi esso gode nell’andare, dove meglio crede, alla loro ricerca”. Il che ci porta a fare due considerazioni: una prima che la separazione delle carriere, perdurando l’attuale discrezionalità nella ricerca delle notizie di reato, con l’autonomia dei pubblici ministeri ne accrescerebbe l’autoreferenzialità e, conseguentemente, il potere, difficilmente controllabile; la seconda è che, ove il pubblico ministero tornasse ad essere “recettore” delle notizie di reato verrebbe meno la spinta alla separazione delle carriere. Anche se, in un Paese dove i cittadini ed i giornali hanno un’antica propensione a segnalare o a denunciare, in particolare stimolati dal giornalismo d’inchiesta, è facile immaginare che gli uffici delle procure sarebbero investiti da numerosissime ipotesi di reato.

La conclusione del bell’articolo di Dubolino, tuttavia, non ci convince in tema di esercizio dell’azione penale previsto dall’articolo 112 della Costituzione. L’A., infatti, sostiene che “l’obbligo di sottoporre tutte indistintamente le notizie di reato ricevute al vaglio di un giudice, anche solo per farne riconoscere la eventuale, riscontrata infondatezza… mal si concilia, sotto un profilo logico, con la totale discrezionalità attribuita al pubblico ministero, di scegliere quali siano, nell’infinito numero delle possibili notizie di reato, quelle che valga la pena di andare a cercare”. Non ci convince perché l’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale è finalizzata a garantire, oltre al principio di legalità, il principio di eguaglianza di tutti i cittadini dinanzi alla legge; obbligatorietà che si collega all’indipendenza del pubblico ministero, in quanto “realizzare la legalità nell’eguaglianza non è concretamente possibile se l’organo cui l’azione è demandata dipende da altri poteri”, come ha sottolineato la Corte costituzionale (sentenza n. 88 del 1991). Inoltre, solo in presenza di un obbligo, nei confronti di un pubblico ministero “distratto” potrà essere attivato il potere di avocazione attribuito al Procuratore generale, ovvero contestato il mancato esercizio dell’azione. In ogni caso il riferimento alla disposizione costituzionale può essere parametro di valutazione dell’operosità dei magistrati delle Procure della Repubblica da parte del Consiglio Superiore della Magistratura o da chi è titolare dell’azione di responsabilità disciplinare.

Sotto altro profilo, a parte ipotesi di deflazione dell’attività delle procure mediante depenalizzazione di fattispecie di reato o di introduzione di strumenti di composizione dei conflitti, sono stati sperimentati criteri di priorità che dovrebbero consentire di razionalizzare le scelte discrezionali compiute dai p.m. nella selezione delle notizie di reato garantendo comunque “trasparenza” e “uniformità”, come è stato concretamente fatto da alcuni uffici. In proposito si ricorda la circolare Maddalena che ha dettato “direttive in tema di trattazione dei procedimenti in conseguenza della applicazione della l. 241/2006 che ha concesso indulto”. Evidentemente anche queste disposizioni debbono essere tendenzialmente uniformi, ai fini del rispetto dei richiamati principi di trasparenza e uniformità, ad evitare che qualcuno scelga il distretto giudiziario dove è più agevole “farla franca”.

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