di Salvatore Sfrecola
I “decreti-legge”, cioè i “provvedimenti provvisori con forza di legge”, come li definisce l’art. 77, comma 2, della Costituzione, sono atti del Consiglio dei ministri, adottati “in casi straordinari di necessità e d’urgenza”, con onere di immediata presentazione alle Camere (“il giorno stesso”) ai fini di una celere conversione in legge (entro sessanta giorni).
L’assunzione della funzione legislativa da parte del Governo, “sotto la sua responsabilità”, precisa la Costituzione, è del tutto eccezionale e deve rinvenire il “presupposto giustificativo” in una esigenza imprevista che richieda un intervento urgente, cioè indilazionabile, nel senso della “impossibilità di un tempestivo intervento parlamentare nella forma della legge ordinaria” (Sorrentino). L’esperienza insegna che la nozione di necessità e di urgenza negli anni si è dilatata “fino al punto di trasformare questo presupposto in una semplice valutazione di opportunità politica”. In numerosi casi, infatti, “l’urgenza non deriva da ragioni obiettive, ma soltanto dall’intento di realizzare un certo progetto di riforma legislativa più rapidamente (o più energicamente) di quanto sarebbe possibile per le vie ordinarie” (Pizzorusso). In sostanza, è stato osservato, che “se c’è modo di attendere il percorso parlamentare – con i suoi rischi e le sue necessità di mediazione – si sceglie la via del progetto di legge, se non c’è questo tempo si sceglie la via della decretazione” (Simoncini).
Premesse queste considerazioni ed i riferimenti dottrinari richiamati sembra che non ricorrano i presupposti per il ricorso al decreto-legge nel caso delle “misure urgenti in materia di semplificazione edilizia e urbanistica finalizzate a fornire un riscontro immediato e concreto al crescente fabbisogno abitativo, supportando, al contempo, gli obiettivi di recupero del patrimonio edilizio esistente e di riduzione del consumo del suolo”, come si legge nel comunicato stampa di Palazzo Chigi al termine del Consiglio dei ministri del 24 maggio. Lo schema di DL, si legge ancora, “reca misure volte a: semplificare le disposizioni in materia di edilizia e urbanistica, anche al fine di far fronte al crescente fabbisogno abitativo, supportando allo stesso tempo gli obiettivi di recupero del patrimonio edilizio esistente e di riduzione del consumo del suolo; rilanciare il mercato della compravendita immobiliare, anche nell’ottica di stimolare un andamento positivo dei valori dei beni immobili; consentire il recupero e la rigenerazione edilizia, anche mediante la regolarizzazione delle c.d. lievi difformità edilizie, al fine di salvaguardare l’interesse pubblico alla celere circolazione dei beni”.
È senz’altro un’esigenza complessa e largamente sentita, in particolare quella, enunciata ripetutamente dal ministro Matteo Salvini, responsabile per materia, di sanare alcuni abusi edilizi che la legislazione attualmente non prevede o non consente di definire in tempi brevi. È un caso straordinario di necessità ed urgenza? La risposta non può che essere negativa. Il Governo avrebbe potuto provvedere già da tempo con un disegno di legge e farlo approvare in tempi brevi, forte della sua maggioranza, come insegna l’esperienza. Si è voluto ricorrere al decreto-legge per evidenti “necessità politiche”, la prossimità delle elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo, a conferma che la campagna elettorale si svolge pressoché esclusivamente su temi di politica interna, se si esclude lo slogan secondo il quale l’Italia mediterebbe di “cambiare l’Europa”, espressione di ingenua buona volontà, considerato che le decisioni in Europa sono a 27, quanto è il numero degli stati.
È dunque quella delle nuove norme sulla sanatoria di abusi edilizi un’esigenza della maggioranza, legittima ovviamente, al di là del merito, ma adottata con un provvedimento che costituisce una forzatura della norma costituzionale. Non è la prima volta, ovviamente. Lo ha fatto questo Governo e di quelli che lo hanno preceduto. La stessa dottrina, come abbiamo visto, ha benevolmente osservato la prassi richiamando l’“opportunità politica” di ricorrere al decreto-legge.
Va anche ricordato che un tempo, prima che la Corte costituzionale lo censurasse (sentenza n. 360 del 1996), i governi usavano reiterare i decreti non convertiti alla scadenza dei 60 giorni, con l’aggiunta di qualche emendamento tra quelli proposti durante il dibattito parlamentare. Poi la Consulta ha sentenziato che tali decreti ledono “la previsione costituzionale sotto più profili: perché altera[no] la natura provvisoria della decretazione d’urgenza procrastinando, di fatto, il termine invalicabile previsto dalla Costituzione per la conversione in legge; perché [tolgono] valore al carattere “straordinario” dei requisiti della necessità e dell’urgenza, dal momento che la reiterazione viene a stabilizzare e a prolungare nel tempo il richiamo ai motivi già posti a fondamento del primo decreto; perché attenua[no] la sanzione della perdita retroattiva di efficacia del decreto non convertito, venendo il ricorso ripetuto alla reiterazione a suscitare nell’ordinamento un’aspettativa circa la possibilità di consolidare gli effetti determinati dalla decretazione d’urgenza mediante la sanatoria finale della disciplina reiterata”.
Oggi, con un profluvio di provvedimenti d’urgenza, il Parlamento è di fatto espropriato del suo ruolo fondamentale, quello di emendare un testo al suo esame, infine approvato col voto su una questione di fiducia presentata dal Governo. Accade continuamente. Non solamente in occasione della discussione dei decreti-legge ma anche della più importante delle leggi, quella con la quale si approva il disegno di legge sul bilancio di previsione dello Stato.
Altro scandalo è il “milleproroghe”, un provvedimento omnibus, nel quale si prorogano termini in scadenza con un’aggiustatina, qua e là alla legislazione più diversa, approfittando dell’urgenza. Anche questa prassi dei decreti-legge ad oggetto plurimo è giustificata in dottrina da chi ritiene che risponda “ad un preciso disegno politico del governo, teso a non ingolfare i lavori parlamentari con troppi decreti e a non far crescere in maniera eccessiva il numero assoluto degli stessi” (Celotto).
Andando indietro nel tempo, prima della legge 400 del 1988, art. 16, comma 1, sull’ordinamento della Presidenza del Consiglio dei ministri, i decreti-legge erano assoggettati al controllo preventivo di legittimità della Corte dei conti ai sensi dell’art. 100, comma 2, Cost., in quanto “atti del governo”. Naturalmente quel controllo aveva ad oggetto solamente i requisiti di costituzionalità, non le norme innovative. Trattandosi di atti con forza di legge si è ritenuto che non fosse necessario il controllo della Corte, neppure sotto il profilo delle norme a contenuto contabile, quando la decretazione d’urgenza riguardava spese prelevate qua e là dal bilancio.
Resta, dunque, il solo controllo del Capo dello Stato il quale, ai sensi dell’art. 87, comma 5, Cost., “emana i decreti aventi valore di legge”. È stato sempre un controllo poco penetrante, considerato che: i decreti sono adottati “sotto la responsabilità” del Governo; il Parlamento si pronuncia sui requisiti di necessità e di urgenza prima dell’esame nel merito delle norme; la conversione in legge, che deve avvenire nei sessanta giorni, fa sì che il Parlamento si appropri del testo convertito.
Questo atteggiamento dei Presidenti della Repubblica ha consentito quello che – con buona pace dei giuristi innanzi richiamati – è unanimemente considerato un abuso che suscita imbarazzo del Capo dello Stato, come si legge in alcuni articoli dei “quirinalisti” più accreditati. Perché intervenire adesso, qualcuno avrebbe potuto dire in un ipotetico colloquio col Presidente, quando hai già consentito l’emanazione di decreti palesemente privi dei requisiti della necessità e dell’urgenza? In imbarazzo è anche il Presidente Mattarella, perché appartiene ad una parte politica che in Parlamento è all’opposizione, e perché ha consentito l’emanazione di altri decreti evidentemente privi dei prescritti requisiti. Uno per tutti, emblematico: il decreto-legge n. 76 del 2020 con il quale, in tempi di pandemia, mentre la stampa e la politica denunciavano sprechi nell’acquisto di mascherine farlocche e di inutili banchi a rotelle, che ora si stanno svendendo a 1 euro perché non degradino ulteriormente negli scantinati, è stata sospesa la giurisdizione della Corte dei conti per danno erariale anche nei casi di colpa grave, con evidente pregiudizio della finanza dello Stato e, indirettamente, di tutti i cittadini che pagano imposte e tasse .
In conclusione, non c’è speranza che la norma costituzionale sui requisiti che consentono l’adozione di “provvedimenti provvisori con forza di legge”, sia rispettata secondo la volontà del Costituente, che una parte della dottrina compiacente, come abbiamo visto, si sforza di interpretare in conformità alla prassi. L’allegra gestione della politica fa comodo a troppi, ai partiti, innanzitutto, che in campagna elettorale potranno dire di aver soddisfatto un’esigenza dei cittadini per troppo tempo trascurata. Ne va di mezzo, tuttavia, la natura parlamentare della Repubblica italiana, che ha mantenuto il carattere rappresentativo dello Stato nazionale nato dal Risorgimento, come si legge nell’art. 2 dello Statuto Albertino, espressione di un principio liberale che il Costituente repubblicano ha fatto proprio all’art. 1, comma 2, stabilendo che “la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”, cioè attraverso i propri rappresentanti nelle Camere del Parlamento. Questa natura dello Stato, che ha fatto grandi le democrazie liberali, come il Regno Unito, è invisa ai partiti politici i quali amano riempire le assemblee legislative di “nominati”, soggetti fedelissimi scelti dalle segreterie dei partiti, privi di qualunque rapporto di fiducia con un elettorato che neppure li conosce, essendosi limitato a votare una lista predisposta in modo che risulti eletto chi è stato opportunamente collocato nell’elenco.
L’elettore risponde disertando le urne. Nel disinteresse generale. Povera Italia!