di Salvatore Sfrecola
Attendo con ansia crescente l’alba del 7 giugno, la vigilia del voto per il rinnovo del Parlamento europeo. L’attendo perché, nel prescritto “silenzio elettorale”, gli italiani potranno riflettere su quanto hanno sentito e visto nel corso di una campagna elettorale rumorosa, a tratti volgare, che poco ha parlato di Europa, ma molto di politica interna, di promesse e di realizzazioni in tema di premierato, autonomia differenziata e Giustizia, tra polemiche fortemente divisive. Ma si è sentito anche di amministrazione, economia e finanza, con qualche indicazione di prospettive più o meno verosimili.
Avremmo voluto assistere a qualche confronto diretto tra i leader dei partiti ma ce lo hanno impedito le regole della par condicio richiamate dall’AgCom, l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, anche se è parso, a me come ad altri, che le due protagoniste del preannunciato confronto politico, la Presidente del Consiglio, leader di Fratelli d’Italia e della maggioranza governativa, e la Segretaria del Partito Democratico, abbiano, in realtà, gradito il divieto preferendo che il duello si svolgesse a distanza. Tuttavia, anche se la cronaca, come la storia, non si fa con i se, ci possiamo chiedere se ne avrebbe tratto vantaggio più Giorgia Meloni, come qualcuno ha scritto, o Elly Schlein. È molto probabile che il faccia a faccia nel salotto di “Porta a Porta”, moderatore Bruno Vespa, non avrebbe spostato più di qualche voto. Ne dà conferma il giudizio dei giornali sulla base dell’opinione, rilevata o immaginata, dei loro lettori, a proposito del saluto con il quale la Presidente del Consiglio si è rivolta al Presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca, “sono quella stronza della Meloni”, con la quale ha rimandato al mittente, il De Luca, il “complimento” che lo stesso le aveva indirizzato.
Ho difficoltà ad esprimere un giudizio su questo scambio di gentilezze e non mi aiuta neppure il richiamo alla primazia nell’uso dell’aggettivo, perché da me mai usato neppure nei confronti più duri, scritti e verbali, nel corso della mia lunga – ahimè – attività di polemista, iniziata sui banchi di scuola quando, in contrasto con i “compagni” della gioventù comunista, rivendicavamo l’italianità di Trieste, messa in forse dalle prepotenze del Maresciallo Tito, o protestavamo per la cruenta repressione delle speranze di libertà che animavano a Budapest i nostri coetanei presto spente dai carri armati dell’Unione Sovietica.
Al mio liceo, il Torquato Tasso di Roma, si respirava un’atmosfera che ci ricordava l’entusiasmo dei moti risorgimentali che un secolo prima avevano impegnato i giovani d’Europa desiderosi di una costituzione che riconoscesse i diritti di libertà e di partecipazione alla vita degli stati. Nell’unità inscindibile dei principi liberali, per cui l’ungherese Tur veniva a combattere in Italia e l’italiano Santorre di Santarosa imbracciava le armi a fianco dei patrioti greci desiderosi di scrollarsi di dosso l’oppressione ottomana.
Qualcuno dei miei lettori dirà che ho deviato, che mi sono fatto prendere dalla passione per la storia e l’amore per l’epopea del Risorgimento liberale trascurando di dire ancora quel che penso della campagna elettorale in atto e dei suoi protagonisti. Non mi sono distratto. Ho voluto sfiorare le memorie d’un tempo per richiamare uno stile che mi sembra estraneo oggi, non per gli epiteti che si sono scambiati alcuni dei protagonisti ma per il ricorrere ripetuto ad evidenti esagerazioni nella rivendicazione dei successi come delle critiche delle iniziative governative, convinto che, al di là delle parole della comunicazione che, da Berlusconi in poi ha occupato giornali e Telegiornali come se fossero l’oracolo della verità, oggi la realtà sia percepibile da parte del cittadino assai più che in passato, implacabilmente, alla cassa del negozio sotto casa o del supermercato, o al momento del pagamento delle bollette di luce e gas che recano molteplici indicazioni di “voci”, di “costi” e imposte, che concorrono al totale in modo significativo, al di là dell’effettivo consumo dei prodotti energetici.
Si ha, dunque, l’impressione che i nostri politici vivano in altra dimensione e in altro luogo, che non percepiscano i problemi della gente, anche soprattutto di coloro che ne hanno di collegati alla salute per le liste d’attesa spesso incompatibili, nel caso delle patologie gravi, con il diritto ad essere curati, perché l’inesorabile decorso del tempo può non essere compatibile con quello della malattia. Che se richiede un accertamento in tempi brevi impone di ricorrere ad una struttura privata con oneri che solo in minima parte sono deducibili dal reddito imponibile.
Sono problemi che la campagna elettorale ha solo sfiorato. Come quelli del lavoro nel quale si esprime la dignità della persona e la sua professionalità. Perché il lavoro è, come lo studio, uno dei motori di quell’ascensore sociale proprio delle democrazie liberali che appare, al momento, fermo al piano terra.
Ecco, liberale è una parola della quale si è abusato, anche da parte di chi, a destra come a sinistra, non ha mai praticato una politica effettivamente dedita alla affermazione in concreto dei principi liberali in uno ai valori spirituali e culturali nei quali si identifica la Patria italiana.
Nel pendolo della storia una variegata componente della classe dirigente di buona cultura e di fede nei valori che hanno dato vita allo stato unitario ha espresso prima l’aspettativa nel successo del centrodestra, poi la speranza che alle parole dei programmi seguissero i fatti. Molti ritengono che questo non sia avvenuto, che la lunga opposizione ai governi di sinistra variamente configurati non abbia favorito la formazione di una adeguata classe dirigente e che questa si sia chiusa nel fortino delle antiche appartenenze senza attuare quelle aperture alle varie componenti della cultura liberale e cattolica come era ragionevole attendersi.
Il risultato di questo stato di cose è l’allontanamento dalla politica di personalità la cui unica ambizione era quella di servire le istituzioni anziché di servirsene, come emerge diffusamente dalle cronache politiche e giudiziarie. Sento sempre più spesso l’intenzione di non votare o di annullare la scheda, un errore gravissimo perché in democrazia si vota a favore o, quando non è possibile, contro. Votare è necessario. Magari “turandosi il naso”, come suggeriva Indro Montanelli in un altro contesto che sembra più lontano del tempo effettivamente trascorso.
Ma capisco la delusione e il disagio. Tento invano, da tempo, di rappresentarlo a chi di dovere. La sordità è un male gravissimo della politica. Ha segnato la storia politica di molti, ai quali non è stato perdonato di non aver capito.