di Salvatore Sfrecola
La separazione delle carriere dei magistrati tra requirenti (i Pubblici Ministeri) e giudicanti, deliberata dal Consiglio dei ministri è una scelta inquietante perché non è evidentemente fine a sé stessa ma è un primo tassello di un assetto dell’azione punitiva dello Stato che prevede il controllo politico del Pubblico Ministero e l’abolizione dell’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale. Non può essere che questo l’obiettivo che si pone quella parte della classe politica che è favorevole alla separazione delle carriere. Altrimenti si dovrebbe arrivare alla conclusione che ci troviamo di fronte a squinternati che si fanno male da soli. Infatti, nessuna delle denunciate disfunzioni della Giustizia penale si risolve separando la carriera dei pubblici ministeri da quella dei giudici; non gli “errori giudiziari” del tipo di quella che oggi segnala La Verità nel caso dell’ufficiale della Guardia di Finanza sotto processo per anni a seguito di testimonianze false; non certamente lo “strapotere” delle correnti nelle quali si articola l’Associazione Nazionale Magistrati (A.N.M.), alcune delle quali apertamente vicine a ben individuate parti politiche, come ha denunciato Giuseppe Valditara, ordinario di diritto romano nell’Università di Torino ed oggi Ministro dell’istruzione in quota Lega, in un bel libro “Giudici e legge”, edito da Pagine, nel quale richiama gli orientamenti della corrente di Magistratura Democratica in tema di interpretazione delle leggi.
L’argomentazione di base di chi ritiene che gioverebbe alla Giustizia la separazione delle carriere è quella di origine berlusconiana, se così si può dire, che parte dal presupposto che P.M. e giudici, appartenendo alla medesima carriera ed essendo “colleghi”, spesso di concorso, siano indotti a non contraddirsi. Per cui il giudice sarebbe tendenzialmente disponibile a dare ragione al collega requirente, ciò che è contraddetto proprio dall’elevato numero di assoluzioni che vengono, di contro, esibite come disfunzioni dell’azione dei pubblici ministeri i quali azzarderebbero azioni non adeguatamente sorrette da prove solide.
Premesso che chiunque può sbagliare, anche se è da augurarsi che, nel caso della Giustizia, gli errori siano ridotti al minimo, considerato che essi incidono sulla libertà e sull’onore delle persone, beni certamente preziosi, non sembra ragionevolmente sostenibile che queste disfunzioni derivino dalla unicità della carriera dei magistrati ma dalle modalità con le quali vengono svolte le indagini ed acquisite le prove e dalla tempestività della loro verifica. Di questo si è detto più volte, anche in assise qualificate di giuristi, a proposito del ruolo del Procuratore della Repubblica il quale prima della riforma Vassalli recepiva denunce che affidava all’esame della polizia giudiziaria mentre oggi avvia in proprio indagini e approfondisce i fatti con l’inevitabile conseguenza di non guardarli con il sereno distacco che evoca la terzietà propria del giudice. Per questo chi ritiene necessaria la unicità della carriera afferma che nella possibilità per tutti di esercizio delle diverse funzioni sta la “cultura della giurisdizione” che assicura anche al requirente un atteggiamento tendenzialmente “terzo”. Considerato che il P.M. non è l’“avvocato dell’accusa”, per dirla alla Berlusconi evidentemente fuorviato dalla visione dei film di Perry Mason, quelli dello “Stato di New York contro mister X”, perché il nostro requirente non rappresenta la Repubblica Italiana ed i suoi interessi, difesi dall’Avvocatura dello Stato, ma promuove il rispetto della legge. Infatti nell’ordinamento della Città del Vaticano il P.M. si chiama “Promotore di Giustizia”.
Le denunciate “disfunzioni” sparirebbero d’incanto con un corpo di requirenti autonomo o non rischiano di aggravarsi? Un corpo di superpoliziotti con un atteggiamento facilmente autoreferenziale è difficilmente controllabile anche in un ordinamento gerarchizzato.
Ed allora ecco che inevitabilmente il prossimo passo sarà l’assoggettamento del Procuratore della Repubblica al potere politico con eliminazione dell’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale previsto dalla Costituzione (art. 112) a garanzia dell’indipendenza del magistrato e del principio di eguaglianza di tutti i cittadini.
È evidente la logica che lega necessariamente tutte queste “riforme” nell’ottica di un potere politico che, da sempre, ritiene di dover rispondere esclusivamente all’elettorato. Lo dimostra il fatto che persone condannate con sentenza passata in giudicato per reati contro la pubblica amministrazione mantengono incarichi di partito e vengono messi in lista nelle elezioni. Loro non ritengono di dover fare “un passo indietro”, come sarebbe necessario anche nell’interesse dell’immagine del partito il quale, a sua volta, si guarda bene dall’accantonarli.
Ma dobbiamo avere fiducia.