di Salvatore Sfrecola
Smentita, oggetto di precisazioni e di scuse, la frase di Papa Francesco sull’inopportunità che omosessuali siano ammessi ai seminari, riferita da chi partecipava all’incontro con i vescovi, merita alcune considerazioni. Innanzitutto, perché se da una riunione “a porte chiuse” questa indiscrezione è uscita vuol dire che qualcuno ha avuto interesse a farlo.
Il problema posto dalla presenza di omossessuali nella Chiesa, certamente non nuovo, è reale e grave. Non è, ovviamente, riferito alle persone ed alla loro dignità ma, com’è evidente dal contesto, di opportunità rispetto ad un ruolo che comporta un impegno non indifferente nella società ed a fianco delle persone che frequentano le chiese. Infatti, è agevole ritenere che la preoccupazione, se così si può dire, del Santo Padre sia quella che sacerdoti di tendenze omosessuali non si astengano dal praticare relazioni di carattere sessuale, “carnali”, avrebbe detto San Paolo. Inoltre, fatto ancora più grave, si tratta di tendenze, che hanno macchiato l’immagine della Chiesa agli occhi del popolo dei credenti in ragione dei ripetuti episodi di pedofilia ovunque denunciati nel mondo.
Se si svuotano le parrocchie, se è venuta a mancare la funzione di aggregazione, soprattutto dei giovani, che avevano gli oratori, questo è dovuto per gran parte agli episodi di pedofilia non prontamente individuati e adeguatamente puniti. Per cui la risposta delle famiglie è stata quella di una diffusa ritrosia ad affidare i giovani alle cure delle parrocchie, anche solo per la frequentazione delle attività ludiche o sportive o culturali che un tempo caratterizzavano positivamente quegli ambienti. Le parrocchie avevano il “campetto” per le partite di calcio, il tavolo per il ping pong, mentre volenterosi sacerdoti impartivano lezioni di latino e greco a quanti ne avevano bisogno e non potevano permettersi lezioni private.
La Chiesa fa, dunque, i conti con il vuoto che si è formato intorno alle parrocchie ed alle altre istituzioni preziose che hanno concorso alla storia economica e sociale delle nostre comunità. Ed, evidentemente, s’interroga sul ruolo che possono avere persone con tendenze omossessuali quando si sentono chiamate ad un servizio alla Chiesa e alla comunità, quel la che chiamiamo “vocazione”, che ha naturalmente il carattere dell’appartenenza, in termini di esclusività, a Dio e al Suo popolo del quale assumono la guida spirituale e al cui servizio sono le opere di carità, l’educazione, l’assistenza sanitaria e l’aiuto ai poveri.
Il “celibato”, proprio di questa condizione personale e spirituale, ha detto, intervistato da Libero, Monsignor Vincenzo Paglia, “richiede castità e continenza”, aggiungendo che una spiccata tendenza omosessuale può essere d’inciampo per chi vive con altri uomini in seminario. Lo aveva segnalato Papa Ratzinger che invitava al discernimento vocazionale, processo di riflessione e preghiera in cui l’individuo cerca di comprendere la chiamata di Dio nella propria vita, per cui in seminario è necessario sia seguito uno stile di vita compatibile con chi sceglie il sacerdozio. E questo ovviamente vale anche per l’elemento femminile della Chiesa.
Mi rendo conto, da persona che vive nella società, che ha relazioni familiari, amicali e affettive, che la vita del sacerdote come della suora non è facile, esige una vocazione autentica ed profonda. Ed è evidente che la vita in una comunità di persone dello stesso sesso limita la possibilità di rapporti interpersonali di carattere affettivo dei quali non è sempre semplice individuare i confini della compatibilità con gli impegni assunti ed i voti accettati.
Le ore per una persona che vive nella società sono impegnate da una molteplicità di attività nell’ambito delle quali si realizzano rapporti di vario genere, affettuosi, con i familiari, con le persone amiche, con le persone dell’altro sesso le quali, anche quando limitate ad una affettività assolutamente priva di pulsioni sessuali, sono comunque capaci di dare soddisfazione al rapporto. Ognuno “si regola”, come ho sentito da un santo monaco, per rispettare le promesse che ha fatto. È chiaro che un laico credente ed un sacerdote o una suora non sono tenuti al rispetto delle medesime regole, come sembra dedursi dalla comprensione che la Chiesa, in particolare con il Santo Padre Giovanni Paolo II, dimostra per la persona che tende naturalmente ad esprimere la propria affettività anche con una carezza ed un abbraccio.
È il tema del celibato nella Chiesa e della compatibilità di una autentica vocazione al servizio di Dio e della Chiesa con rapporti interpersonali che siano sorretti da una forte capacità di un amore umano e, pertanto, aspirante alla completezza in un contesto di esclusività.
Non può dunque un laico valutare o suggerire. Sarebbe estremamente irriguardoso nei confronti della Chiesa. Ma soluzioni vanno cercate perché anche la crisi delle vocazioni, che un tempo forse era attenuata dall’interesse di persone provenienti da famiglie modeste di studiare nei seminari e a volte di intraprendere la carriera ecclesiastica, pur senza una vocazione particolarmente intensa che, alla prova del tempo e delle lusinghe della vita, spesso degenerava. È certamente un tema che merita attenzione. Preti sposati, come in altre confessioni religiose? Il rischio è che sembrino “impiegati” della parrocchia e non abbiano quell’aura di eroicità agli occhi dei credenti in ragione della quale, scriveva Augusto Guerriero, magistrato della Corte dei conti, che con il nome di Ricciardetto firmava per Epoca una seguitissima rubrica, “posso chiamare con rispetto e devozione “Padre” un uomo che, per età, potrebbe essere mio figlio”.