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Aborto: fallimento di uno Stato che trascura la famiglia

di Salvatore Sfrecola

L’aver escluso ogni riferimento al “diritto all’aborto” nella dichiarazione finale del G7, il summit dei cosiddetti “Grandi della terra”, è certamente un successo della nostra Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, a fronte delle sollecitazioni del Presidente francese, Emmanuel Macron, che quel “diritto” ha fatto inserire nella Costituzione del suo paese e vorrebbe fosse recepito dall’Europa. L’aborto è una tragedia dell’umanità, “l’eliminazione voluta di un essere umano innocente e debole. Privo di qualsiasi colpa, se non quella di essere una vita indesiderata, non voluta, non programmata, scomoda, foriera di problemi, eliminando la quale tutto si sistema e si risolve”, come ha scritto Massimo Gandolfini su La Verità. Una tragedia aggravata dal fatto che l’interruzione della gravidanza, concepito quale “diritto esclusivo delle donne sul proprio corpo”, è divenuto nella prassi un metodo di contenimento delle nascite, in aperta violazione della legge 22 maggio 1978, n. 194 (Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza”) che all’art. 1, comma 2, stabilisce che “non è mezzo per il controllo delle nascite”. Dopo aver affermato al comma 1, che “lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio”. Conseguentemente (comma 3) “lo Stato, le regioni e gli enti locali, nell’ambito delle proprie funzioni e competenze, promuovono e sviluppano i servizi socio-sanitari, nonché altre iniziative necessarie per evitare che l’aborto sia usato ai fini della limitazione delle nascite”.

Sarebbe stato difficile essere più espliciti. D’altra parte, il valore sociale della maternità è riconosciuto dalla Costituzione all’art. 31, laddove “la Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi con particolare riguardo alle famiglie numerose.

Protegge la maternità, l’infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo”.

Se, dunque, la legge “tutela la vita umana dal suo inizio”, l’interruzione volontaria della maternità è una extrema ratio tanto che la legge (art. 2) prevede che “i consultori familiari istituiti dalla legge 29 luglio 1975, n. 405, fermo restando quanto stabilito dalla stessa legge, assistono la donna in stato di gravidanza:

a) informandola sui diritti a lei spettanti in base alla legislazione statale e regionale, e sui servizi sociali, sanitari e assistenziali concretamente offerti dalle strutture operanti nel territorio;

b) informandola sulle modalità idonee a ottenere il rispetto delle norme della legislazione sul lavoro a tutela della gestante;

c) attuando direttamente o proponendo all’ente locale competente o alle strutture sociali operanti nel territorio speciali interventi, quando la gravidanza o la maternità creino problemi per risolvere i quali risultino inadeguati i normali interventi di cui alla lettera a);

d) contribuendo a far superare le cause che potrebbero indurre la donna all’interruzione della gravidanza.

I consultori sulla base di appositi regolamenti o convenzioni possono avvalersi, per i fini previsti dalla legge, della collaborazione volontaria di idonee formazioni sociali di base e di associazioni del volontariato, che possono anche aiutare la maternità difficile dopo la nascita.

La somministrazione su prescrizione medica, nelle strutture sanitarie e nei consultori, dei mezzi necessari per conseguire le finalità liberamente scelte in ordine alla procreazione responsabile è consentita anche ai minori”.

Quindi il “diritto” all’aborto di cui si sente dire, come fosse libera disposizione del corpo, come tutti i diritti, ha dei limiti ben stabiliti. Infatti, la legge lo prevede (art. 4) in un preciso ambito temporale (“entro i primi novanta giorni”). In quel caso, ove, “la donna che accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito, si rivolge ad un consultorio pubblico” che, (art. 5) “oltre a dover garantire i necessari accertamenti medici, hanno il compito in ogni caso, e specialmente quando la richiesta di interruzione della gravidanza sia motivata dall’incidenza delle condizioni economiche, o sociali, o familiari sulla salute della gestante, di esaminare con la donna e con il padre del concepito, ove la donna lo consenta, nel rispetto della dignità e della riservatezza della donna e della persona indicata come padre del concepito, le possibili soluzioni dei problemi proposti, di aiutarla a rimuovere le cause che la porterebbero alla interruzione della gravidanza, di metterla in grado di far valere i suoi diritti di lavoratrice e di madre, di promuovere ogni opportuno intervento atto a sostenere la donna, offrendole tutti gli aiuti necessari sia durante la gravidanza sia dopo il parto”.

E qui, come avviene spesso, il legislatore dà un colpo al cerchio ed uno alla botte, come si usa dire. E se opportunamente evoca il “padre del concepito” sia pure non per riconoscergli un diritto di interferire nella scelta, come pure sarebbe stato logico, ma a puro titolo informativo, richiama l’“incidenza delle condizioni economiche”. Insomma, se sei povera puoi abortire. Anche se il medico di fiducia “la informa sui diritti a lei spettanti e sugli interventi di carattere sociale cui può fare ricorso, nonché sui consultori e le strutture socio-sanitarie”.

L’interruzione volontaria della gravidanza, dunque, è concepita come intervento necessario “a) quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna” (art. 6, lettera a), tanto che le procedure sono semplificate in caso di “imminente pericolo per la vita della donna”.

Non si comprende dunque, la critica all’emendamento contenente la previsione che all’interno dei presidi sociosanitari possano essere presenti quelle realtà del terzo settore che sostengono la maternità, ritenuto un “attacco al diritto di aborto”. Il fatto è che si vuole un diritto senza limiti. “Vogliono il controllo sul corpo delle donne” titola La Stampa un pezzo che contiene un’intervista a Dacia Maranini, aggiungendo “il diritto all’aborto entri nella Costituzione”, una sollecitazione accompagnata dalla solita accusa “al sistema di valori maschile”. 

Ideologia soprattutto e molta confusione. Perché quella legge che richiama le “condizioni economiche” come possibile giustificazione dell’aborto denuncia una gravissimo fallimento della Repubblica la quale, mentre ha affermato solennemente nella Carta fondamentale di voler agevolare “con misure economiche e altre provvidenze” la formazione delle famiglie di fatto le priva dei mezzi di sostentamento che altri stati prevedono, nella convinzione che le famiglie costituiscano il tessuto fondamentale della società e che i figli siano un investimento per il suo futuro. I governi italiani, invece, qualunque sia il loro colore, si sono distinti per una politica contraria agli interessi delle famiglie, che anzi ne ha sconsigliato la formazione e favorito la dissoluzione attraverso un sistema tributario rapace ed ottuso.

Si rendano conto i partiti che una politica di crescita e sviluppo del Paese deve necessariamente partire dalle famiglie che costituiscono un tessuto sociale nel quale vivono e si conservano i valori civili e spirituali della Nazione e concorrono attraverso i propri componenti allo sviluppo dell’economia. La famiglia, infatti, è composta da lavoratori e consumatori che, in queste vesti, favoriscono lo sviluppo delle attività produttive e, quindi, dell’occupazione. 

Torni, dunque, la famiglia al centro della politica, al di là delle divisioni ispirate a prevenzione politico ideologica. Si svegli la destra che molto dice e poco fa, si muova la sinistra che, in tempi nei quali non si erano ancora manifestate certe derive multicolori, aveva concorso a riconoscere in Costituzione la famiglia quale “società naturale fondata sul matrimonio” (art. 29) impegnandosi ad assicurarle lo sviluppo con “misure economiche e altre provvidenze”.

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