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Se il 2 giugno 1946 avesse vinto la Monarchia?

di Salvatore Sfrecola

La storia, lo sappiamo tutti, non si può scrivere con i se. Eppure, c’è sempre qualcuno che, per amor di paradosso, ci prova ed ipotizza che le cose, in un certo periodo, siano andate in modo diverso da come le conosciamo dai libri di storia e dalle cronache. Così, ritrovo, fra i ritagli di stampa da me accuratamente conservati, un breve articolo di Alessandro Gnocchi per Il Giornale, del 4 gennaio 2024. Il titolo “se avesse vinto la monarchia? Forse saremmo leader europei…”.
Una laurea in storia e filosofia, giornalista brillante, scrittore di tematiche religiose nell’ambito della letteratura contemporanea, biografo di Giovannino Guareschi, studioso dei personaggi delle opere di Carlo Goldoni, Georges Simenon e John Ronald Reuel Tolkien, Gnocchi ha collaborato con i quotidiani Il Giornale, Il Foglio, La Verità.
Nell’articolo che ha stuzzicato la mia immaginazione Gnocchi ipotizza che il 10 giugno 1946 la Corte di Cassazione abbia annunciato il risultato del referendum con la vittoria della Monarchia per la ragione che ha suggerito ad Indro Montanelli di affermare, nell’Avvertenza al libro scritto insieme a Mario Cervi (L’Italia della Repubblica – 2 giugno 1946 – 18 aprile 1948, Rizzoli, Milano, 1985), che “di coloro che avevano votato Repubblica… pochissimi si erano resi conto che, con la Monarchia, L’Italia rinnegava il Risorgimento, unico tradizionale mastice della sua unità… (e che) scomparso anche quello, il Paese era in balìa di forze centrifughe che ne facevano temere la decomposizione”.
Secondo Gnocchi, votando Monarchia gli italiani avrebbero “perdonato” i Savoia “scaricando sul solo Benito Mussolini la responsabilità della disastrosa e criminale alleanza con il nazista Adolf Hitler”. In realtà questa affermazione non è lontana dalla realtà, se consideriamo che, dopo venti anni di regime fascista invasivo della vita sociale italiana, con la parte finale rappresentata dalla Repubblica Sociale Italiana e quindi da una guerra civile sanguinosa, che ha provocato lutti e gravissime atrocità dall’una e dall’altra parte, come ci ha raccontato Giampaolo Pansa, la Monarchia ha ottenuto – secondo i dati ufficiali – poco meno dei voti della Repubblica. Ciò in una condizione obiettivamente difficile, in particolare nelle aree del Nord dove la presenza dei partigiani socialcomunisti, sicuramente antimonarchici, ha condizionato l’espressione del voto. Inoltre, il fatto che non abbiano potuto votare i militari che, fedeli al giuramento di fedeltà al Re, non si erano schierati con la R.S.I., tenuti lontani dalla Patria, fa pensare che, effettivamente gli italiani abbiano saputo distinguere le diverse responsabilità politiche, a cominciare dall’incarico a Benito Mussolini nel 1922 di formare un governo, con il concorso di popolari e liberali, che ha avuto la fiducia di una Camera democraticamente eletta. Gli italiani sapevano che il Re si era trovato a decidere in un momento drammatico quando liberali, cattolici e socialisti, nonostante le ripetute sollecitazioni, si erano rifiutati di assumere la responsabilità di un governo che gestisse la grave crisi economica e sociale dovuta in gran parte alla riconversione dell’industria bellica.
Fuggiti nel 1922, rifugiatisi su un inutile Aventino, quanti potevano dare al Re quel “fatto costituzionale” che invano aveva chiesto, non hanno avuto il coraggio o la capacità di frenare la progressiva erosione dei diritti sanciti dallo Statuto Albertino da parte di un regime deciso perfino a condizionare, attraverso il voto necessario del Gran Consiglio del Fascismo, le stesse regole della successione al trono, lesione gravissima delle prerogative regie.
Impadronitosi delle Forze Armate, pur formalmente fedeli al Re, con la concessione di promozioni e di onorificenze a generali modesti, come hanno rivelato le operazioni in Etiopia ed in Spagna, avendo conquistato una vasta adesione della popolazione, come hanno sempre riconosciuto autorevoli esponenti antifascisti, Benito Mussolini, ormai succubo di Hitler, ha fatto approvare dalla Camera e dal Senato le leggi razziali sicché il Re, che vi era apertamente e notoriamente contrario, doveva promulgarle.
Ugualmente in solitario il Duce ha portato l’Italia in una guerra che non avevamo interesse alcuno a combattere.
Al di là del poco scientifico ricorso al “se avesse vinto la Monarchia” l’articolo di Gnocchi rivela comunque un notevole interesse e analizza alcune situazioni che obiettivamente erano tali al momento del passaggio di poteri dalla Monarchia alla Repubblica. Ad esempio, fa riferimento alla forza armata partigiana, di ispirazione comunista e repubblicana, che in alcune regioni del Nord ha intimidito con la violenza le persone di notori sentimenti monarchici. Tuttavia, osserva Gnocchi, i comunisti, dipendenti dalle indicazioni dell’Unione Sovietica, probabilmente non avrebbero scatenato la temuta guerra civile sulla base della considerazione che in quel momento Josif Stalin non avrebbe aperto un fronte in Italia essendo “occupato a impadronirsi dell’Europa orientale”. Non lo avrebbero consentito americani ed inglesi anche se i primi erano ostili alla monarchia, mentre Londra, pur favorevole all’istituzione rimproverava al Re di aver tradito l’antica solidarietà nata nel corso del Risorgimento e consolidatasi durante la Grande Guerra. A Vittorio Emanuele III, notoriamente anglofilo, si era rivolto alla vigilia dell’entrata in guerra dell’Italia il Re Giorgio VI in una lettera rinvenuta da Andrea Ungari nell’archivio di Windsor nella quale trasferiscono i profondi legami tra i due paesi: Italy and Great Britain have in the past been friends. Indeed, since the foundation of modern Italy I think it is true to say that my country has been as close to Italy as has any country in Europe, and that has been to us a cause a lively statisfaction. In my country we have always had a special regard for Italy and for Italians, and I like to believe that Italians have had an equal regard for the British peoples (Carlo Graziani, “Da Cascais alle Piramidi – Umberto II in Egitto, 1947-48, Luni Editrice, Milano, 2021).
Interessanti le considerazioni di Gnocchi sulla possibile riforma dello Stato se fosse rimasta la Monarchia. Sostiene che il Re avrebbe potuto patrocinare, in collaborazione con Alcide De Gasperi e Giulio Andreotti, una profonda revisione dell’assetto istituzionale. Si sarebbe potuta applicare “quasi alla lettera il piano originario del conte di Cavour. Creare alcuni cantoni e dare al Paese un assetto federale, con la corona a simboleggiare e garantire l’unità nazionale. De Gasperi è sensibile all’argomento: del resto è nato nel 1881 in Trentino, allora nell’Impero austro-ungarico, ed è Stato membro della Camera dei deputati austriaca per il collegio uninominale della Val di Fiemme nella Contea del Tirolo. Inoltre la soluzione pare in linea con la storia della Penisola, da sempre divisa in Stati. Dopo l’unità, in tutte le città italiane è rimasta la segreta memoria della propria autonomia, talvolta secolare”.
Del resto, già il Ducato di Savoia, come scrive Alessandro Barbero in un bel libro dedicato a quella realtà territoriale, un aggregato di patrie e comunità, ereditate poi dal Regno di Sardegna, aveva conosciuto forme di autonomia di comunità varie. Inoltre il Re Umberto II è colui che ha promulgato lo Statuto di autonomia della Regione Siciliana prima del referendum del 1946 e, quindi, prima della Costituzione repubblicana.
Forse Cavour non era proprio federalista, come lo dipinge Gnocchi, ma certamente aveva compreso l’importanza delle realtà locali, lui che aveva dell’Italia una opinione unitaria ma anche articolata nella varietà delle esperienze di territori che, nel corso dei secoli, avevano sperimentato forme di autonomia, dai comuni della Toscana alle città libere della Puglia, ai principati dell’Italia settentrionale.
Gnocchi immagina che con questo retroterra culturale, l’Italia, per la quale Re Carlo Alberto aveva previsto un governo “monarchico rappresentativo”, sarebbe stata gestita dalle forze politiche, nel rinnovato assetto democratico, con una considerazione delle comunità autonome senza che fosse messa in crisi l’unità della Nazione, garantita proprio dalla presenza del Sovrano, come accade in Spagna o in Belgio, paesi dalle ricorrenti tensioni localistiche dove le monarchie svolgono un ruolo di collante, attraverso la personalità dei sovrani appartenenti alla famiglia che in qualche modo ha unificato il paese. È questa, del resto, una delle funzioni attuali delle Monarchie che si proiettano nel contesto internazionale, in particolare europeo, come rappresentazione dell’identità di un popolo nel contesto dell’Unione. Infatti, l’Europa delle Patrie è tale se forte è l’identità delle singole nazioni.
Alessandro Gnocchi non si ferma qui. Immagina una nuova Costituzione, questa volta non concessa dal Sovrano, ma votata dall’Assemblea costituente. “Dotato di ampi poteri, il Re incarna l’unità. La bandiera mantiene lo stemma dei Savoia”. Immagina che Re Umberto II avrebbe abdicato dopo il 1968, che sarebbe salito sul trono il figlio Vittorio Emanuele, il IV dei Re con quel nome, che avrebbe “accompagnato l’Italia nella modernità”, senza contestazioni di carattere dinastico con i “cugini” Aosta.
“Il Paese oggi – conclude Gnocchi – è il leader dell’Unione Europea”.
Fin qui la fantasiosa ricostruzione con la quale Alessandro Gnocchi ci conduce a riconsiderare un passaggio cruciale della storia nazionale, ipotizzando che un Re, naturalmente al di sopra delle parti, favorisca uno sviluppo della democrazia più di quanto possa in Repubblica un Capo dello Stato che, per quanto autorevole, è sempre espressione della maggioranza che lo ha eletto e che deve rassicurare nella speranza di essere confermato al termine del settennato.
Seguendo, dunque, il filo della ipotesi di Gnocchi immaginiamo che dopo il 10 giugno 1946 avremmo avuto ancora De Gasperi alla Presidenza del Consiglio, considerato il successo dei cattolici alle elezioni per la Costituente, con personalità anche della cultura liberale. Immaginiamo i monarchici Edgardo Sogno agli esteri, Luigi Einaudi al Tesoro, Enrico De Nicola o Vittorio Emanuele Orlando alla Giustizia, Benedetto Croce all’Istruzione o forse il cattolico Guido Gonella con il quale la Principessa Maria José si era spesso confidata negli anni difficili della guerra (Gonella ed altri antifascisti s’incontravano a casa di Giuseppe Spataro, già Presidente della FUCI, Vicesegretario del Partito Popolare di Sturzo, più volte ministro). Forse avrebbero trovato un posto nel governo “del Re” anche lo scrittore Carlo Emilio Gadda, il giornalista Indro Montanelli, il grande tenore Mario Del Monaco, l’editore Valentino Bompiani che avevano votato per la Monarchia. Come il campione di ciclismo e coraggioso collaboratore degli antifascisti toscani Gino Bartali. Naturalmente il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio sarebbe rimasto Giulio Andreotti, dell’ala apertamente monarchica della Democrazia Cristiana.
Lasciando le suggestive e immaginifiche narrazioni di Gnocchi per affrontare la realtà dei nostri giorni, è un fatto che, pur nella grave crisi della Repubblica testimoniata anche dalla crescente disaffezione dei cittadini per le urne, di fronte ad una politica fatta di annunci, ai quali il più delle volte non segue neppure un decimo di quanto promesso, mentre giorno dopo giorno viene mortificato il ruolo del Parlamento, espressione massima della democrazia rappresentativa, e messa in forse la stessa funzione del Capo dello Stato che, pur designato garante del rispetto della Costituzione, viene visto sempre come espressione della parte politica che ha concorso più di altre alla sua elezione, nessuno, a livello politico, ipotizza il ritorno alla Monarchia, come, invece, si sente dire in alcuni paesi dell’Est Europa alla ricerca delle proprie radici storiche a lungo occultate dall’egemonia sovietica.
In particolare, nessuna delle personalità delle ex case regnanti sembra voler rivendicare, in via puramente teorica, la propria posizione di “erede al trono”, non per attentare alla Repubblica ma per tenere viva, sullo sfondo del dibattito politico, l’ipotesi di una tradizione che altrove, come si è visto, ha un ruolo importante nell’andamento della democrazia. Si pensi, ad esempio, al Regno Unito che va alle urne e ribalta la situazione politica precedente. Avviene perché l’elettore si sente libero nella scelta del candidato che meglio può rappresentarlo in un collegio uninominale a dimensione di un rapporto autentico tra candidato e cittadini, dove il “porta a porta” non è uno slogan ma l’espressione massima della ricerca del consenso. Lì, sulle rive del Tamigi, il sistema elettorale, sperimentato negli anni, rafforza il ruolo dei gruppi parlamentari alla Camera dei Comuni e rassicura i cittadini britannici che chiunque prevalga non c’è da temere sommovimenti perché il Capo dello Stato non è di una parte politica ma si identifica, non solo formalmente, nella Nazione.
Oggi, in Italia, nonostante l’immaginifica argomentazione di Alessandro Gnocchi, nessuna degli eredi dell’ex Casa regnante si è intestato formalmente il ruolo di “pretendente” tra i discendenti del Re Carlo Alberto, al quale si deve il coraggioso e un po’ temerario avvio dell’avventura risorgimentale conclusa dal nipote, Vittorio Emanuele III, il Re soldato, con l’annessione di Trento e Trieste. Frastornati dal lungo esilio e divisi nei due rami, dei Carignano e degli Aosta, svolgono una presenza occasionale nella vita culturale italiana senza significativi risvolti politici. Emanuele Filiberto, nipote diretto dell’ultimo Re d’Italia, Umberto II, noto ai più per alcuni interventi in trasmissioni televisive di intrattenimento, è presente prevalentemente in iniziative degli Ordini Dinastici di Casa Savoia, in particolare dell’Ordine Mauriziano, ed a qualche cerimonia religiosa, che organizza l’Istituto delle Guardie d’onore delle Reali Tombe del Pantheon.
Il ramo Savoia-Aosta, discendente dal principe Amedeo Ferdinando, terzogenito di Vittorio Emanuele II, Re di Spagna dal 1870 al 1873, ha rappresentato una presenza rilevante nella storia d’Italia attraverso personalità di grande rilievo militare e scientifico, da Emanuele Filiberto, Comandate dell’“invitta” Terza Armata nella Grande Guerra, a Luigi Amedeo, duca degli Abruzzi, Comandante della flotta italiana nel 1915, allo scoppio della guerra, conosciuto in tutto il mondo per le sue imprese polari, scalatore ed ardimentoso esploratore, tra i più celebri dell’epoca. Poi Amedeo, in Libia nel 1928, Vicerè d’Etiopia e strenuo difensore dell’Amba Alagi durante la Seconda Guerra Mondiale. Ancora Aimone, duca di Spoleto, Ammiraglio, designato Re di Croazia, padre di Amedeo, quinto duca d’Aosta, nonno di Aimone, attuale rappresentante del Casato. Ufficiale di complemento in Marina, come il padre Amedeo, Aimone di Savoia Aosta è noto soprattutto per la sua capacità di manager di grande esperienza tanto da ricoprire l’incarico di Direttore generale e Amministratore delegato del gruppo Pirelli per la Russia ed i paesi nordici. Dal 2019 è Ambasciatore del Sovrano Militare Ordine di Malta presso la Federazione russa, una funzione di grande prestigio, che conferma la tradizionale vicinanza di Casa Savoia alla Chiesa cattolica. Sposato con Olga di Grecia ha tre figli Umberto, Amedeo, Isabella.
Il Principe Aimone è presente ad alcune manifestazioni culturali prevalentemente organizzate dall’Unione Monarchica Italiana (U.M.I.). Sua la prefazione al volume Camillo Benso di Cavour, il primo Ministro”, della Collana “L’Italia in eredità” diretta dall’Avv. Alessandro Sacchi, Presidente dell’U.M.I., e pubblicata da Historica, la casa editrice che fa capo a Francesco Giubilei, Presidente della fondazione “Tatarella”, ed a Giorgio Regnani.
Se si esclude questa collana (oltre al libro su Cavour ne sono stati pubblicati altri quattro, su Vittorio Emanuele II, Giuseppe Garibaldi, Umberto II e Umberto I) e “Conversazione sulla Monarchia”, dove Adriano Monti Buzzetti Colella, giornalista del TG2, intervista Sacchi, e le attività dell’U.M.I. con ricorrenti iniziative diffuse in streaming l’attività ed incontri sul territorio, non c’è una Fondazione che possa riferirsi a Casa Savoia ad elaborare idee a fornire alla classe politica idee su temi dell’attualità, come faceva un tempo la “Consulta dei Senatori del Regno”, anch’essa oggi divisa in due entità, una riferita al Principe Emanuele Filiberto, l’altra ad Aimone.
Nessuno, dunque, interviene su temi di interesse generale, un po’ come faceva un tempo il vecchio Conte di Parigi, Enrico d’Orleans, con periodiche prese di posizione alle quali la Francia repubblicana guardava sempre con rispettosa attenzione.
Neppure la legge sull’autonomia differenziata sembra rimettere in palla gli eredi Savoia. Eppure, è certamente iniziativa controversa, invisa al Sud e non solo, sulla quale i Savoia avrebbero da dire, considerato che i loro avi fecero l’Italia una ed oggi può accadere che si accrescano i motivi di distanza tra aree del Paese che potrebbero concorre in modo significativo al benessere generale. Per non dire del “premierato” una proposta che vorrebbe introdurre modifiche all’istituzione governo in termini che ricordano più di qualcosa della riforma della Presidenza del Consiglio varata nel Ventennio fascista. In proposito l’ex ministro D.C. Paolo Cirino Pomicino, come riferisce Dagospia, è stato categorico: “chi toglie la libertà al Parlamento prima o poi la toglie anche al Paese. Come fece Mussolini”.

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