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25 luglio 1943, il giorno più lungo del Fascismo, quanto il Re accettò le “dimissioni” di Benito Mussolini

di Salvatore Sfrecola

Domenica 25 luglio 1943, ore 22,45, la radio interrompe l’ordinaria programmazione per un annuncio letto dal giornalista Titta Arista: “Sua Maestà il Re e Imperatore, ha accettato le dimissioni dalla carica di Capo del governo, Primo Ministro e Segretario di Stato presentate da Sua Eccellenza il Cavaliere Benito Mussolini ed ha nominato Capo del Governo, Primo Ministro e Segretario di Stato il Cavaliere, Maresciallo d’Italia, Pietro Badoglio’’.
Poche parole, sufficienti perché tutti percepissero che l’Italia voltava pagine, come attesta il tripudio delle folle, a Roma, e in altre città, consegnato alle immagini dei giornali e dei filmati dell’epoca, tra sventolio di bandiere ed esibizione delle foto del Re. In quelle ore pochi si ricordano di essere stati fascisti, i più tolgono immediatamente dalla giacca il distintivo del Partito Nazionale Fascista (P.N.F.), la “cimice”, che, sostenevano, avevano indossato solamente perché obbligati. Domenico Giglio, storico Presidente del romano Circolo “Rex” all’epoca era un ragazzo. Uscito di casa con i suoi genitori per raggiungere l’abitazione di Badoglio nel quartiere romano dei Parioli racconta di un tappeto di “cimici” gettate dalle finestre dagli improvvisati antifascisti.
Si chiudeva, dunque, con le “dimissioni” del Cavaliere Benito Mussolini quello che, per convenzione, è stato il “Ventennio” fascista, il regime del partito unico, del premierato del Duce, delle leggi razziali e della guerra dichiarata con enfasi il 10 giugno 1940 contro le potenze occidentali che nella storia d’Italia ci erano state vicine in vari momenti, nel Risorgimento e nel corso della Grande Guerra, quando l’esigenza di annettere Trento e Trieste e le terre irredente indusse il Re Vittorio Emanuele III a lasciare la Triplice Alleanza per aderire all’Intesa con Londra e Parigi anche per salvaguardare i nostri interessi nel Mediterraneo, come aveva suggerito il Grande Ammiraglio Thaon di Revel, con argomentazioni ancora valide. Un Paese con ottomila chilometri di coste ed interessi al di là del mare, in Libia, Eritrea, Etiopia e Somalia, non ha motivo di fare la guerra alle potenze marittime, a meno di avere la forza di vincerle. Ma poi perché?
A Vittorio Emanuele III, notoriamente anglofilo, si era rivolto alla vigilia dell’entrata in guerra il Re d’Inghilterra, Giorgio VI, in una lettera rinvenuta da Andrea Ungari, Professore di Storia contemporanea ad Unimarconi, nell’archivio di Windsor nella quale il Sovrano inglese fa appello ai profondi legami tra i due paesi: Italy and Great Britain have in the past been friends. Indeed, since the foundation of modern Italy I think it is true to say that my country has been as close to Italy as has any country in Europe, and that has been to us a cause a lively statisfaction. In my country we have always had a special regard for Italy and for Italians, and I like to believe that Italians have had an equal regard for the British peoples (Carlo Graziani, “Da Cascais alle Piramidi – Umberto II in Egitto, 1947-48, Luni Editrice, Milano, 2021).
Da tempo scricchiolava il regime squassato dalle disfatte militari su tutti i fronti nonostante il valore del soldato italiano mandato a combattere ovunque con precaria organizzazione e armamenti scarsi e inadeguati. Ne erano consapevoli soprattutto i massimi esponenti del regime convenuti a Palazzo Venezia nel pomeriggio del 24 luglio di una calda e afosa serata romana, per partecipare a quella che non immaginavano certo sarebbe stata l’ultima seduta del Gran Consiglio del Fascismo, organo costituzionale del Regno, che con la sua istituzione aveva segnato, tra le altre, la più grave delle lesioni portate all’ordinamento costituzionale, l’intervento necessario nella successione al Trono.
Due settimane prima, 180.000 soldati delle forze alleate erano sbarcati sulle coste siciliane, lungo 160 chilometri di costa. I soldati incontrarono ben poca resistenza.
All’ordine del giorno un documento che si sarebbe rivelato di importanza storica, predisposto dal Presidente della Camera, Dino Grandi, concordato nei giorni precedenti con alcuni gerarchi in una riunione nella sede del Partito Nazionale Fascista. Prendendo atto dell’andamento drammatico delle operazioni militari il documento, di aperta sfiducia nei confronti del Presidente del Consiglio Benito Mussolini, prevedeva che al Re fosse restituito il comando supremo delle Forze Armate, una scelta che faceva cadere il ruolo del Duce.
Si è detto molto di questa seduta e del documento sottoposto al voto del Gran Consiglio. Di come la riunione fosse stata preparata, di come fossero stati convinti molti pur fedelissimi al Duce, a cominciare dal genero Galeazzo Ciano.
La discussione è animata ed è ormai il 25, quando, alle ore 2,30, messo ai voti, l’ordine del giorno Grandi viene approvato da 19 dei presenti, tra gli altri i superstiti “quadrumviri” della Marcia su Roma, Emilio De Bono e Cesare Maria De Vecchi, notoriamente fedeli alla Corona, altri elementi di spicco del regime, oltre a Dino Grandi e Giuseppe Bottai, l’economista Alberto de’ Stefani, il giurista Alfredo de Marsico, il sindacalista Edmondo Rossoni, il nazionalista Luigi Federzoni. 7 furono i contrari, 1 si astenne.
Il passaggio fondamentale del testo, premesso un omaggio “agli eroici combattenti di ogni arma …”esaminata la situazione interna ed internazionale e la condotta politica e militare della guerra… dichiara che è necessario l’immediato ripristino di tutte le funzioni statali, attribuendo alla Corona, al Gran Consiglio, al Governo, al Parlamento, alle Corporazioni i compiti e le responsabilità stabilite dalle nostre leggi statutarie e costituzionali; invita il Capo del Governo a pregare la Maestà del Re, verso la quale si rivolge fedele e fiducioso il cuore di tutta la Nazione, affinché Egli voglia per l’onore e la salvezza della Patria assumere l’effettivo comando delle Forze Armate di terra, di mare, dell’aria, secondo l’articolo 5 dello Statuto del Regno, quale suprema iniziativa di decisione che le nostre istituzioni a Lui attribuiscono e che sono sempre state in tutta la nostra storia nazionale il retaggio glorioso della nostra Augusta Dinastia di Savoia”.
Quel “ripristino di tutte le funzioni statali” è, senza mezzi termini, la conclusione della stagione delle leggi derogatorie dello Statuto Albertino con le quali il Fascismo, approfittando della natura “flessibile” della Carta costituzionale, aveva concentrato tutti i poteri nel partito e nel Duce e limitato l’autorità del Sovrano, a cominciare dal Comando “effettivo” delle Forze Armate, per intervenire anche sulla successione al Trono, come siè già detto.
Si è discusso molto sull’o.d.g. Grandi, su come sia nata l’iniziativa, sulla formulazione del testo, sulla discussione che ha preceduto il voto, con l’intervento dei massimi esponenti del regime e dello stesso Benito Mussolini che aveva presieduto, in tono ritenuto da tutti dimesso, quasi rassegnato, la riunione dopo aver tentato di rinviarla. Per alcuni il Duce era stanco e sfiduciato, forse desiderava uscire di scena. Si sa che l’ordine del giorno era stato preparato d’intesa con altri dirigenti fascisti come Luigi Federzoni e Giuseppe Bottai, che era stato portato all’attenzione di Mussolini due giorni prima dal suo stesso estensore.
Del dibattito in Consiglio esistono varie versioni e interpretazioni, che hanno richiamato l’attenzione degli storici, impegnati a ricercare la reale volontà dei votanti sulla base di quanto emerge da memoriali e diari, alcuni messi a punto nei giorni successivi dagli stessi protagonisti della seduta, documenti sospetti di essere stati “aggiustati” alla luce degli eventi, la destituzione di Mussolini e la nascita del Governo del Maresciallo Pietro Badoglio.
Essenziale è comprendere come è nata la decisione di portare all’attenzione del Gran Consiglio la proposta di restituire al Re i poteri statutari. Una iniziativa che, ormai è certo, partita da lontano, era divenuta sempre più concreta a mano a mano che la condotta della guerra assumeva connotazioni via via più drammatiche. E cresceva nell’opinione di molti esponenti del regime la consapevolezza dell’errore di valutazione che aveva indotto Mussolini ad entrare in guerra a fianco della Germania, senza riflettere sulla possibile evoluzione di un conflitto che era logico attendersi sarebbe presto diventato “mondiale”. Con trascuratezza delle potenzialità militari di Francia e Regno Unito, che disponevano di eserciti che aggregavano ingenti truppe coloniali e, soprattutto, del prevedibile apporto degli Stati Uniti d’America, grande potenza industriale, in una guerra che, più della prima, sarebbe stata combattuta con un rilevante e crescente apporto di mezzi di elevata tecnologia. E senza tener conto delle condizioni delle nostre Forze Armate e degli armamenti, che risentivano del pesante impegno sostenuto nelle guerre d’Etiopia e di Spagna. Sull’uno e l’altro fronte l’esercito aveva dimostrato gravissimi limiti, organizzativi e di adeguatezza rispetto alle nuove tecniche di combattimento che impiegavano armi individuali molto più moderne di quelle di cui disponevamo. Per non dire dei mezzi di trasporto e di quelli da combattimento, come le artiglierie ed i carri armati che si dimostreranno inadeguati ai combattimenti in Etiopia e in Africa settentrionale. Inoltre, era stato immediatamente evidente, per effetto delle difficoltà di approvvigionare via mare le nostre truppe in Africa Orientale, che l’armata al comando del Viceré Amedeo di Savoia, Duca d’Aosta, nonostante l’eroico comportamento dei nostri soldati, aveva dovuto arrendersi il 19 maggio 1941 all’esercito inglese. Poco dopo avremmo perduto la Libia, mentre la Grecia sarebbe stata conquistata a prezzo di gravissime perdite in uomini e mezzi solamente nell’aprile 1941 grazie all’intervento determinante di truppe tedesche provenienti dalla Jugoslavia. A sua volta la campagna del Corpo di spedizione in Russia, tra il 1941 e il 1943 fu una tragedia per morti, feriti e prigionieri detenuti per anni nei campi sovietici.
Se si aggiunge che importanti città italiane sono state pesantemente bombardate, con migliaia di vittime civili e distruzione di infrastrutture viarie, ferroviarie, portuali e aeroportuali, si comprende facilmente il diffuso malcontento dell’opinione pubblica e il desiderio di chiudere l’esperienza con una pace separata. Si è detto che lo stesso Mussolini avrebbe avuto l’intenzione di parlarne con Hitler, incontrato a Feltre il 19 luglio, ma sembra che non abbia potuto affrontare l’argomento.
Recenti studi e testimonianze dicono che in ambienti del Fascismo e delle Forze Armate l’intenzione di raggiungere una pace separata si era andata formando fin dal primo anno di guerra (1940) per effetto della diffusa consapevolezza delle difficoltà di un conflitto al quale l’Italia non aveva nessun interesse per le condizioni delle truppe, cui si è già fatto cenno, ma soprattutto per ragioni che oggi definiremmo geopolitiche, considerata la nostra collocazione geografica nel Mediterraneo, di cui già si è detto.
Il malcontento, dunque, cresceva e alimentava la volontà di individuare un modo per avviare trattative con gli anglo-americani, naturalmente previa sostituzione della guida delle Forze Armate e del Governo. È questa l’intenzione del Re Vittorio Emanuele III, che la decisione di entrare in guerra aveva subìto e che aveva costantemente rimarcato la propria diffidenza nei confronti della conduzione delle operazioni militari e specificamente dell’“alleato” tedesco, come si desume dalle testimonianze degli aiutanti di campo del Re e da passi significativi dei Diari di Galeazzo Ciano, Ministro degli esteri e genero del Duce. Anche lui, infatti, diffidava dei tedeschi. Analoghi sentimenti, antifascisti ed antitedeschi, erano diffusi nella famiglia reale. Contrari alla guerra erano notoriamente il Principe ereditario, Umberto, e la consorte, Maria José, principessa belga e, pertanto, consapevole di quanto accadeva nel paese d’origine occupato dalla Wermacht. La principessa, in particolare, aveva contatti con esponenti antifascisti, da Benedetto Croce a Guido Gonella, e con il Sostituto della Segreteria di Stato della Santa Sede, Monsignor Giovanbattista Montini, il futuro Papa Paolo VI.
Il Re, per parte sua, tramite il Ministro della Real Casa, il Duca d’Acquarone manteneva discreti rapporti con alcuni fascisti fedeli alla monarchia, come Dino Grandi, di recente insignito del Collare della Santissima Annunziata, personalità di spicco del regime, già Ministro della Giustizia, Ambasciatore a Londra per molti anni, al momento Presidente della Camera dei Fasci e delle Corporazioni. E con Luigi Federzoni, storico leader del movimento nazionalista. Il Sovrano, inoltre, intratteneva relazioni con vari esponenti della politica prefascista. Con molta cautela, immaginando di essere spiato in vario modo da persone appartenenti agli apparati di sicurezza dello Stato che amavano ingraziarsi il Duce con rapporti nei quali si tendeva ad enfatizzare il dissenso che emergeva nella Famiglia Reale e negli ambienti a lei vicini.
Significativa la testimonianza di Vittorio Emanuele Orlando, il “Presidente della vittoria” grande giurista liberale, parlamentare di lungo corso, che ha raccontato di essere stato avvertito molti mesi prima che qualcosa sarebbe accaduta a luglio.
È certo, dunque, che il 25 luglio è figlio dell’iniziativa del Re che da tempo “era entrato nell’ordine di idee che, per salvare il paese, avrebbe dovuto sbarazzarsi di Mussolini e, forse, del fascismo stesso. Tuttavia, ligio com’era al formalismo giuridico, aveva bisogno di un “pretesto” per operare: un pretesto che gli sarebbe stato, appunto e casualmente, offerto dalla riunione del Gran Consiglio del 25 luglio 1943”, come scrive Francesco Perfetti, storico dell’età contemporanea (Opinioni Nuove, agosto 2023). “In realtà, continua, il Re aveva già pensato di intervenire prima dell’entrata in guerra dell’Italia. Il 14 marzo 1940 aveva fatto avvicinare Ciano da Acquarone per informarlo che “da un momento all’altro” avrebbe potuto presentarsi “la necessità di intervenire per dare una diversa piega alle cose”, cosa che egli era disposto a fare “anche con la più netta energia”. Pochi giorni dopo, il 28 marzo, Ciano aveva avuto un lungo colloquio con il Principe Umberto che non aveva celato “la sua preoccupazione per l’orientamento sempre più germanofilo della nostra politica”. Un evento, dunque, preparato e concordato con Dino Grandi, come spiega bene Enzo Storoni (La congiura del Quirinale) che nel suo Memoriale aggiunge. “senza tema di smentite che artefice unico del colpo di stato sia stata la monarchia”.
Aggiungo un ricordo personale. Ero un ragazzo quando l’on. Cesare Degli Occhi, Avvocato e parlamentare cattolico, antifascista, dirigente dell’Unione Monarchica Italiana (U.M.I.), venendo a parlare del 25 luglio mi disse: “sono stato ostile al Fascismo fin dai primi anni ‘20 ma a farlo cadere fu il Re, solamente il Re”. Ricordo una sua battuta: “io mi facevo la barba mentre il Re congedava Mussolini”.
Secondo Marcello Veneziani, ci fu “un antefatto che di solito non viene collegato alla caduta del regime fascista”, il pesante bombardamento di Roma, avvenuto il 19 luglio i cui effetti Mussolini poté valutare rientrando da Feltre. Tremila furono i morti nella popolazione, di cui la metà nel solo quartiere di San Lorenzo, migliaia i feriti, case distrutte, terrore. “Cinquemila bombe sganciate sulla capitale da cinquecento bombardieri”. Secondo Veneziani “si sottovaluta l’impatto emotivo, la paura e la percezione di vulnerabilità che il bombardamento del 19 luglio ha procurato nell’establishment, tra le gerarchie militari e sulla stessa Corona. Tutti, dal Re ai capi e capataz avvertono di essere ormai in balia degli eventi, esposti alla tragedia, ormai insicuri fin dentro casa, nei palazzi del potere romano…”. È lì che si rinvengono i prodromi del “fatidico 25 luglio, spartiacque nella storia del novecento italiano e punto di svolta nella seconda guerra mondiale”. Nonché “paradigma di tutte le cadute dei capi, di tutti i conflitti tra poteri e di tutti i voltafaccia e i tradimenti, i passaggi di campo”.
Abbiamo visto che la genesi del 25 luglio va ricercata, in realtà, molto prima, ma è certo che l’immagine di Roma violata dalle fortezze volanti alleate convinse più d’uno e fece comprendere che si era alla fine. Forse lo stesso Mussolini sentiva che l’orologio del destino aveva consumato il suo tempo sicché accettò di discutere e votare l’ordine del giorno che platealmente lo privava del comando delle Forze Armate, pronto a rimettere il suo mandato nelle mani del Re che, disponendo il suo fermo, lo metteva al riparo dalla reazione degli antifascisti, come emerge dalla lettera al Maresciallo Badoglio del 26 luglio nella quale l’ormai ex Duce lo ringrazia “per l’attenzione” riservata alla sua persona, si dice “contento della decisione presa di continuare la guerra” aggiungendo voti “che il successo coroni il grave compito al quale il maresciallo Badoglio si accinge per ordine e in nome di Sua Maestà il re, del quale durante ventuno anni sono stato leale servitore e tale rimango”. Ed indica il luogo dove si sarebbe ritirato volentieri, la Rocca delle Caminate, un castello in comune di Meldola a poca distanza da Predappio, residenza estiva del capo del Fascismo. Certo in quel momento non pensava di costituire la Repubblica Sociale, una decisione le cui motivazioni affaticano da allora gli storici. Forse sollecitato dai tedeschi consapevoli della difficoltà del fronte italiano, forse per uno scatto di orgoglio spinto dai fascisti duri e puri pronti a morire a fianco dell’alleato. Un atteggiamento che è alla base dell’accusa di tradimento mossa al Re al quale pure si addebiterà, dopo l’annuncio dell’armistizio con gli anglo-americani, la “fuga” da Roma verso Brindisi, una scelta che anni dopo Carlo Azeglio Ciampi, Presidente della Repubblica, giudicherà necessaria per assicurare la continuità dello Stato.
Con l’8 settembre, infatti, avrà inizio uno dei periodi più drammatici e controversi di quegli anni. In un Paese sconvolto da una guerra ormai perduta, avranno inizio operazioni militari per la liberazione dal tedesco, divenuto nemico e invasore, ed una guerra civile sanguinosa, a tratti crudele anche se illuminata da episodi di straordinario eroismo.
Affrontati gli eventi “sine ira ac studio” sarà evidente che il Re ha evitato che l’Italia facesse la fine della Germania con ancora maggiori lutti rispetto a quelli che la guerra e l’occupazione tedesca di alcune regioni hanno provocato. Aveva anche salvato Mussolini dall’ira popolare. Avrebbe potuto “godersi” la pensione, ma ha voluto riprendere le armi per poi finire giustiziato sommariamente, dopo aver tentato di salvare la pelle fuggendo (lui non il Re) vestito da tedesco con un mezzo di quei tedeschi che, fermati dai partigiani, lo hanno abbandonato, così dando ancora una volta ragione a Vittorio Emanuele III di quell’“alleato” non si era mai fidato.
I dittatori, insegna la storia, raramente muoiono nel loro letto.

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