di Salvatore Sfrecola
Nel momento in cui sulla stampa e in politica si dibatte animatamente sulla “legge Calderoli”, che introduce un’autonomia differenziata per le regioni, avversata da quanti ritengono aggravi le diseguaglianze tra Nord e Sud, viene a proposito la lettura di questo bel libro di Andrea Mammone “Il mito dei Borbone, Il Regno delle due Sicilie tra realtà e invenzione” (Mondadori-Le Scie, Milano, 2024, pp. 179, € 20,00). Docente di storia all’Università di Roma “La Sapienza”, dopo aver insegnato per oltre un decennio alla University of London ed aver svolto ricerche presso l’European University Institute e l’University of Pennsylvania, autore di numerosi volumi sulle destre estreme europee e sull’Italia contemporanea e di saggi sulle maggiori riviste accademiche italiane e straniere, con una collaborazione giornalistica sul New York Times, The Guardian, Corriere della Sera, La Stampa, il Washington Post, Al Jazeera, Huffington Post e CNN, il Prof. Mammone in questo volume prende le mosse da una diffusa polemica anti risorgimentale ed antiunitaria incarnata in questi ultimi anni da alcune associazioni di matrice neoborbonica.
Non si tratta di una polemica nuova, ma è più di recente che, avvalendosi anche di social, in particolare di Tik Tok, la polemica contro lo Stato risorgimentale ha preso piede per iniziativa di alcuni giornalisti e personaggi della politica locale, essenzialmente a seguito della pubblicazione di “Terroni” (Piemme, Milano, 2010, pp. 301, € 9,90) un libro che reca nella prima di copertina una frase intrinsecamente assurda “tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero meridionali”, essendo evidente che meridionale è solamente una condizione geografica qui intesa in senso denigratorio. È il best sellers di Pino Aprile, un giornalista che è stato capace, come pochi, di trasformare la frustrazione dei meridionali obiettivamente in condizioni economicamente svantaggiate, in un orgoglioso ricordo di un passato che si assume nobile e ricco, di un Sud conquistato e spogliato dai piemontesi in cerca di oro per ripianare il debito pubblico dilatatosi a seguito delle guerre d’indipendenza. L’incipit è significativo dell’approccio al tema: “Io non sapevo che i piemontesi fecero al Sud quello che i nazisti fecero a Marzabotto. Ma tante volte, per anni”.
Spesso presente in convegni e dibattiti, anche su televisioni locali, la polemica neoborbonica evoca un Sud schierato contro l’unità ed una ribellione delle popolazioni locali fedeli ai Borbone che avrebbero causato una repressione cruenta con centinaia di migliaia di uccisioni non solo tra i “briganti”, dipinti come patrioti, ma anche tra la popolazione civile massacrata per rappresaglia.
La narrazione neoborbonica si diffonde anche sulle dimensioni dell’economia meridionale e sulla consistenza del tesoro del Regno, sostenendo che l’economia di quelle regioni sarebbe stata scientemente colpita per interessi del Nord. Tipico il caso delle risaie siciliane che sarebbero state chiuse per non danneggiare la produzione di Piemonte e Lombardia. Il tutto per giustificare l’attuale stato di arretratezza di alcune aree del meridione rispetto al resto d’Italia.
Tuttavia, scrive Mammone nelle conclusioni del volume, “le pulsioni anti risorgimentali non hanno generato alcun reale stravolgimento politico o istituzionale”. Resta, ovviamente, la preoccupazione di chi ha a cuore l’unità d’Italia che l’occasione della contestazione della legge sull’autonomia differenziata non alimenti ulteriori sentimenti separatisti già presenti in alcune aree del Nord. Tutte iniziative che possono avere come unico risultato il rallentamento di ogni iniziativa destinata a sanare antiche differenze delle quali lo Stato centrale è certamente responsabile, come nel caso dell’assenza di infrastrutture adeguate all’esigenza di sviluppare l’economia del Sud e delle isole in ragione delle produzioni locali, agricole e manifatturiere e del turismo, risorsa preziosa di quelle aree del Paese.
Il libro di Mammone non si sofferma su contestazioni puntuali di specifiche situazioni, che invece si ritrovano nei volumi di Tanio Romano, Presidente nazionale dei Giovani Avvocati Italiani (U.G.A.I.): ”La grande bugia borbonica” e “È colpa del Nord”.
Mammone preferisce condurre una ricognizione delle tesi dei movimenti antiunitari di matrice meridionalistica convinto che, come per ogni periodo storico, vi sia spazio per più interpretazioni degli eventi da riguardare con la logica, l’esperienza e le conoscenze del tempo e con le conseguenze che si sono avute negli anni successivi all’unità d’Italia fino ad oggi, con riferimento allo sviluppo modesto della economia e del Sud. E come al solito motivi di ragione ce né per chi ritiene che l’unità d’Italia sia stata una grande opportunità che non è stata colta o che il Sud non è stato capace di cogliere, considerate le attuali condizioni di quelle regioni obiettivamente trascurato nello sviluppo dell’economia italiana. Se si pensa, infatti, che nel 1846 Camillo Benso Conte di Cavour, che ancora non svolgeva nessuna attività politica, aveva scritto che le ferrovie avrebbero unificato l’Italia segnalando per il meridione l’importanza che il trasporto delle merci avrebbe avuto per lo sviluppo dell’economia di territori caratterizzati da una fiorente agricoltura trasferendone le produzioni rapidamente al Nord della Penisola e in Europa, oggi l’alta velocità, che è l’espressione migliore del trasporto ferroviario, si ferma a Salerno.
Queste considerazioni non sembrino un fuor d’opera nella presentazione di un libro che parla del Regno delle Due Sicilie “tra realtà e invenzione” perché molto della polemica anti risorgimentale antiunitaria che ha, come effetto, quello di indebolire “l’identità italiana” e di contribuire a quel vittimismo di chi addebita soltanto a cause esterne i mali di un’intera area geografica, sta proprio nella iniziativa dei neoborbonici.
È un fatto, ad esempio, osserva Mammone che uno dei grandi successi del Risorgimento, pur con tutti i suoi limiti che conosciamo e che possiamo approfondire, ha rappresentato un avanzamento civico epocale anche per le masse meridionali che vivevano sotto l’assolutismo politico dei Borbone. Questa dinastia straniera che aveva costruito un Regno Napoli-centrico, tanto da ingenerare la ribellione costante della Sicilia, repressa con la forza, come testimonia il bombardamento di Messina, in realtà era assolutamente povero tranne la zona di Napoli, privo di strade che non potevano favorire quindi i commerci tanto che ricordiamo, nelle memorie di famiglia, che per andare da Bari a Napoli coloro che erano impegnati nelle udienze della Cassazione del Regno preferivano raggiungere la Capitale con il vapore e circumnavigare lo stivale piuttosto che affrontare i rischi di strade di difficile percorrenza e infestate dai briganti. L’idea che questi fossero dei patrioti, partigiani del Regno soppresso è sbagliata. Erano espressione di un fenomeno antico, endemico, così come la bassa alfabetizzazione. Gli analfabeti superavano il 90% rispetto al 60% della media delle altre regioni d’Italia. Diffuso era il colera per le scarse condizioni igieniche delle città, compresa Napoli.
Poi c’è da dire – ed è un tema sul quale il volume si sofferma con speciale attenzione – che i neoborbonici dovrebbero sapere che il movimento liberale, tendente ad ottenere la costituzione, che nel corso degli anni dal 1830-32 fino al 1848 coinvolse le classi borghesi e intellettuali ricercava una risposta dall’autorità che non c’è stata. Perché anche quando i Borbone hanno concesso la costituzione sotto la pressione dell’opinione pubblica, che evidentemente era consistente e qualificata per il concorso delle borghesie cittadine e di antica nobiltà, sono stati subito pronti a revocarla quando hanno immaginato di essere al sicuro con il supporto delle baionette austriache.
“Il mito dei Borbone” è, dunque, un libro di storia che si propone di raddrizzare la narrazione degli eventi contrastando il revisionismo storico la post-verità che va molto di moda e che, nel caso dei neo borbonici, è impegnata nel mettere in risalto alcuni primati che nessuno ha mai contestato, preferendo glissare sui problemi della popolazione negli anni borbonici, ciò che è centrale per comprendere la validità di alcune ricostruzioni storiche.
È un fatto, ad esempio, che la conquista del Regno delle due Sicilie da parte di Garibaldi sia stata agevolata dalla adesione della popolazione, non soltanto della borghesia, quella che “preferiva che tutto cambiasse perché tutto rimanesse com’era prima”, secondo il suggerimento di Tancredi al Principe di Salina. Ma anche del popolo al quale Garibaldi aveva assicurato la distribuzione delle terre in un contesto agricolo nel quale dominava il latifondo che era presidiato da polizie private, in sostanza dalla camorra.
Il libro passa in rassegna i presunti primati duosiciliani, un territorio non omogeneo mal collegato all’interno del Regno. Con evidente limitazione dello sviluppo economico di aree con discrete produzioni agricole ed industriali. Tra queste aree “e il resto del reame esistevano forti difformità, che poi rispecchiavano la ragguardevole distanza tra gli sfarzi delle corti e la condizione del popolo”, scrive Mammone. Basti pensare al reddito agricolo netto prima dell’unificazione, di cui si è occupato il Prof. Richard Eckaus, docente di economia al prestigiosissimo Massachusetts Institut of Technology (MIT) di Boston.
Le cifre sono in milioni di lire dell’epoca:
-Centro-Nord 789 (69%)
-Due Sicilie 348 (31%)
Pertanto, il regno delle Due Sicilie aveva nel settore principale dell’economia, quello agricolo, un reddito medio che era meno della metà di quello del Centro-Nord.
Ora non è dubbio che la velleità di quanti parlano di un Sud indipendente immaginino una secessione che fa il pendant di quella tante volte manifestata dalla Lega nel Veneto, con affermazioni slogan del tipo “noi non siamo sud, non siamo meridione, noi siamo due Sicilie e siamo una nazione vogliamo uno stato libero e autonomo che possa incontrare le altre realtà della penisola e con esse costruire uno stato confederato”.
Il libro ricorda che le controstorie le quali interpretano l’epopea del Risorgimento facendola diventare il punto di svolta negativo è la causa principale della arretratezza, dello stato di abbandono, dell’immigrazione e della povertà.
Queste idee sono anche il frutto di un vittimismo diffuso, tipico di una mentalità meridionale per cui mai si sente parlare in queste iniziative di errori fatti nel tempo da regioni che, dopo l’unità d’Italia, hanno avuto ministri primi ministri e con la Repubblica capi dello Stato meridionali. Quindi immaginare un Sud abbandonato è fuorviante, non perché non ci siano come abbiamo già detto delle gravi insufficienze dello Stato nazionale, ma perché trascurano completamente l’apporto che proviene dalle realtà locali prima della regionalizzazione e, ancora a maggiore ragione, da quando le regioni hanno acquisito notevole potere. Si tratta dunque di un micro nazionalismo fondato sulla mistificazione e sulla manipolazione della storia. Anche l’idea che il popolo meridionale abbia una sua identità differente da quella presente in altre parti d’Italia è un fatto che dovrebbe essere volto al positivo in quanto una delle caratteristiche di questo Paese, a differenza di altri, della Francia ad esempio, è dato dalla ricchezza delle realtà locali dal punto di vista culturale, storico istituzionale e artistico per cui ogni regione d’Italia ha una sua storia straordinaria che è una gemma che si incastona nella corona d’Italia rendendola tutta espressione di una grande storia. Dovrebbe quindi essere ambizione di ogni realtà, anche quindi della meridionale, quella di impreziosire il contributo che la storia locale come la realtà culturale e ambientale porta all’Italia unita. E se è vero che “uno dei pochi strumenti che possediamo per provare a comprendere il futuro: sotto alcuni punti di vista, quest’ultimo acquisisce un qualche senso grazie alle esperienze passate che proiettiamo in esso”. Ha poco senso delegittimare il processo unitario e i suoi principali attori, evidenziando il (fantomatico) lato oscuro con un format specifico che offre ai lettori una “spettacolarizzazione degli eventi”, una serie di denunce strillate fin dalle copertine, un secondario interesse per le noiose fonti, una (quasi) totale assenza di comparazione, contestualizzazione e qualsivoglia riflessione intellettuale.
Né ha senso sottolineare l’illegittima invasione piemontese per affermare lo status di Colonia del Sud. In realtà l’esercito piemontese entra nel Sud, ormai in mano a Garibaldi e ai rivoltosi che lo hanno seguito, per garantire l’ordine pubblico e in qualche modo rassicurare le potenze straniere preoccupate dalla soppressione del Regno delle due Sicilie e dalla modifica contestuale degli equilibri nell’area del Mediterraneo. Né vale dire che qualcuno si era fatto corrompere, che qualche altro era fuggito.
Mammone sottolinea come “il risvolto specifico e preoccupante di questo processo antirisorgimentale è che esso può portare a sfilacciare i legami di appartenenza nazionale. Revisione della storia “ufficiale” e orgoglio delle proprie origini possono, infatti, contribuire a un sentire comune identitario che assume una centralità nell’ottica di una difesa “a prescindere” del Meridione e della critica o addirittura del rigetto dello Stato-nazione italiano. In questo contesto ogni occasione è buona per ribadire l’ideologia neoborbonica ed estremizzare i concetti ed eventi storici”.
Si è detto tante volte dell’industria, di quella siderurgica in particolare e nessuno si accorge dell’assurdità di uno stabilimento costruito in montagna, difficilmente raggiungibile. Sfugge ai critici dell’evoluzione di questo comparto che era stato individuato in una sede assolutamente inidonea per la mancanza dei trasporti e delle strade necessarie per un’attività industriale di quelle dimensioni e di quelle capacità. Il libro passa in rassegna tutte le contraddizioni proprio a proposito del Comune di Mongiana. “L’attività produttiva del luogo era il vanto del Regno delle Due Sicilie e, nella retorica dei vecchi e nuovi revisionisti, essa rappresenta una delle pietre miliari – una “prova” o addirittura la “colpa” storica – del fallimento dell’unificazione d’Italia. Raccontare fatti come questi, come scrisse anni fa un neoborbonico, serve a “ricostruire le nostre radici, la nostra identità di calabresi, di meridionali e anche di italiani e per avere, dopo 140 anni, delle classi dirigenti fiere, arrabbiate e finalmente degne di rappresentare gli antichi popoli delle Due Sicilie”.
Il libro sottolinea, inoltre, come la produzione metallurgica dipendeva essenzialmente dalle commesse pubbliche. Si trattava di un settore fortemente protetto inserito in un contesto privo di manifattura industrializzata, in prevalenza agricolo, il quale avrebbe sofferto per le future aperture al libero mercato e alla globalizzazione. “Bisogna inoltre ricordare – scrive Mammone – che, da un punto di vista produttivo, Mongiana e siti simili non erano poli siderurgici a vocazione internazionale. La ghisa inglese era più economica. La produzione di rilievo e più tecnologicamente avanzata era collocata in quell’Inghilterra che per prima aveva conosciuto la rivoluzione industriale. È Oltremanica, e non sulle Serre calabresi, che si ritrovano Karl Marx e Friedrich Engels per osservare le dinamiche del capitalismo, l’universo fabbrica, lo stato dei lavoratori e i rapporti con le classi”.
La Calabria, continua il libro, “al di là dei sogni di qualche neoborbonico, era, sotto i Borbone, una terra isolata e poco pronta a quegli scambi economici che si andavano sempre più liberalizzando e globalizzando. Il commercio era in generale scadente e il trasporto delle merci anche rischioso, perché si poteva essere assaliti dai briganti. Le strade esistenti nell’Ottocento non erano in altri termini, e neanche per gli osservatori contemporanei, funzionali agli scambi commerciali, all’agricoltura e all’industria”. La stessa Strada regia delle Calabrie, che avrebbe dovuto rappresentare l’arteria di collegamento tra Napoli e la Sicilia, era malridotta. Tanto che “in alcuni tratti somigliava a un vero e proprio sentiero di campagna”. Significativa ricorda il libro, fu l’avventura di Luigi Settembrini che, “vincitore di una cattedra a Catanzaro, impiegò giorni per raggiungere la sua nuova sede partendo da Napoli”.
Nella stessa area alla fine del XVIII secolo la Calabria, “come altri luoghi sottoposti al governo borbonico, era ancora caratterizzata da un insieme di abusi feudali che opprimevano i lavoratori e rallentavano la produzione agricola. I Baroni esercitavano una forte autorità sulle masse povere dei braccianti. I soprusi e il potere dei feudatari avevano pochi limiti. Sotto vari aspetti la struttura feudale era simile a quella del periodo aragonese: stime di inizio Ottocento mostrano come l’83% del territorio calabrese fosse costituito da feudi”.
Il libro spiega, con dovizia di esempi e di testimonianze, come lo stato Napoli-centrico “non rispecchiava la realtà dell’intero regno, così come la corte non era il simbolo della vita quotidiana dei sudditi”.
In sintesi, spiega Mammone, “non esisteva nessuna Borbonia Felix e, al netto degli errori e dei divari, l’unificazione fu un evento di grande portata con benefici per l’ex regno borbonico. Lo storico Guido Pescosolido giustamente nota come la “condizione creatasi nel 1861… fu per il popolo italiano migliore e più progressiva non solo dal punto di vista politico-istituzionale, ma anche economico, sociale e civile, di quella sino ad allora vissuta all’interno degli antichi stati preunitari, nessuno escluso”. Pure la stessa integrazione finanziaria con il resto della penisola ebbe effetti benefici sull’economia meridionale, poiché il precedente scarso sviluppo del mercato creditizio era causato dagli effetti delle politiche bancarie borboniche combinate con i limiti strutturali del tessuto economico”. Osservazioni “ignorate o criticate dai neoborbonici. La loro unica tesi è che il Sud era ricco e il popolo era felice”.
Il libro mette in evidenza come i neo borbonici non si pongano domande scomode e non hanno dubbi. “Eppure, il meridione era a pieno titolo in quel contesto di “unità multiple” e di “guerra civile permanente” che ha caratterizzato, in quegli anni una penisola “divisa”. La nascita dello Stato-nazione italiano e la caduta dei Borbone iniziarono quindi ben prima del 1860. Tra la fine del Settecento e l’unificazione nazionale, la storia, dimenticata dai neoborbonici, di quel regno che, come affermano, era grande e sfarzoso, è stata attraversata da moti e rivoluzioni, innovazioni e arretratezza, sia nei centri urbani sia nei contesti rurali punto. Il Meridione conobbe infatti pulsioni contestatarie ben prima del richiamo garibaldino, e rivolte significative interessarono sia la capitale sia le province”. In particolare la Sicilia aveva un costante rapporto conflittuale con il Regno. Essa possedeva pure una reale prospettiva nazionale e la “formazione politico-culturale della classe dirigente” siciliana era ormai caratterizzata da una chiara “italianità”. In questo contesto “la politica reazionaria e accentratrice borbonica generava malessere”.
Un capitolo è riferito a agli “Alfieri del Re”, cioè agli storici borbonici e agli ambienti politici ed a quelli cattolici fortemente polemici nei confronti dell’unificazione nazionale in considerazione della soppressione dello Stato della Chiesa ed in genere di quella che viene definita la politica “massonica” del Piemonte. L’appeal del movimento neoborbonico nasce da una congerie di iniziative di carattere culturale ma soprattutto politiche di componenti meridionali di partiti politici i quali hanno fondato la ricerca del consenso sulla esaltazione del passato più recente, non della Magna Grecia e della storia politica e culturale precedente e successiva all’impero romano, ma di quello che è sembrato essere stato danneggiato dall’iniziativa unitaria.
Il libro, come si comprende facilmente, è molto interessante e forse dalla visione dello storico, che ha esaminato una quantità notevolissima di documenti, si può ricavare un invito ad una ragionevole valutazione dei fatti, come si sono svolti nel tempo, per recuperare uno spirito di unità nazionale nella diversità dei territori che, come detto in più occasioni, è una preziosa esperienza italiana formatasi nel tempo in ragione delle storie politiche e culturali che hanno caratterizzato le città ed i borghi da Nord a Sud.